IL NATALE POTENTINO
USO E COSTUMI DI ALTRI TEMPI
Non è meraviglia se si aspettava con vera frenesia il Natale, perché solo allora in tutte le famiglie, ricche o povere, con il fior fiore della farina di “carosella” si facevano i tradizionali piccilatiedd', che erano per i potentini come il panettone per Milano; piccoli di nome ma grandi e grossi di forma e di peso.
Che insolito affaccendarsi era in quei giorni per questi famosi piccilatiedd' simbolo di straordinaria e annuale esultanza!
Ma il momento più solenne e difficile era
quando bisognava spianare e distendere la pasta, allora si chiamavano in aiuto
le comari e le vicine più esperte e chi con una rotella di ferro o di ottone
dentata, detta sprone, orlava a disegni il giro dei piccilatiedd; e chi vi infiggeva
mandorle mondate con le punte in fuori e ad ogni tratto esclamavano:
ingraziatimi' Dio.
Ma prima di assaporare quel pane bianco, la famigliola doveva mandare giù nello stomaco per parecchi giorni il
pane di faritiedd', cioè della farina di scarto che era nero, cruscoso e duro,
come un pane da cane o da pastori e nella vigilia del Natale si stava a
stomaco digiuno per meglio gustare lu piccilatiedd', e prepararsi con appetito
al pranzo della sera.
Bisognava vedere come in quei giorni ogni
donna si metteva in moto per la cerimonia culinaria, tradizionale e solenne
della sera, divenendo anche la casa più umile e modesta un tempio di fede, di festa
domestica e di tradizionale allegrezza!
Verso l'ora del tramonto non vi era casa, ove
non si vedessero uscire colonne di fumo dalla “ciumminiera” e non si sentisse il nauseante odore del baccalà, o del pesce fritto alla padella o del capitone messo ad arrostire allo spiedo con larghi spruzzi di aceto e
olio; o il tanfo delle fritture di “scrupedd'”, “strufuli”, paste di farina
lattiginosa e indurita con torlo d'uovo, che si friggevano in olio abbondante e sopra si versava un poco di miele, facendo da piatto dolce per il Natale.
Cessato l'allegro e lungo scampanio delle chiese,
ogni famiglia si metteva a tavola per mangiare.
Il capo della casa, pater
familias, padre o nonno che era aveva messo lu “ciucculu” (ceppo) ad
ardere, invocando le benedizioni e la divina assistenza del Bambino che doveva
nascere, poi prendeva il posto di onore a tavola e prima di “ingignà lu
piccilatiedd'”, cioè mettere il coltello per affettarlo, si scoprivano tutti il
capo e si recitava il Pater noster e l'Ave Maria. Poi egli dava la benedizione
e gli auguri alla famiglia, la quale glieli ricambiava con espressioni di
reverenza e di affetto e i giovani ed i piccoli procedevano a baciargli la
mano.
Anche allora qualche birichino di fìglio o
di nipote non si piegava di buona voglia a quell'atto di sottomissione
affettuosa e di rito; ma non per cattiveria di animo, sebbene per soggezione,
come si diceva o per vergogna.
Conclusa questa cerimonia, il padre di
famiglia, (spettava a lui il diritto) fettava lu piccilatiedd' e poi si
cominciava a lavorare di ganasce.
E quindi vermicelli “a agli' e uogli'”; e
poi pesce, pesce e sempre pesce, a zuppa, fritto, arrostito, da annodare la
gola; finocchi, cardoni, castagne, marroni, pere, mele, uva, fichi ed ogni
sorta di fruita; e poi le fritture di pastelle, zeppole, chiènile, e strufoli
con orciuoli colmi di vino generoso e di moscato, perchè di vinello non bisognava
neppure parlare nel Natale.
Non si andava a letto o si andava per poco
e si restava vicino al focolaio a raccontare novelle, aspettando, dicevano
le donne e i fanciulli, che la Madonna venisse ad asciugare a quel fuoco li
fasciatori, o pannicelli, del bambino Gesù.
Appena si sentivano i primi tocchi, o
squilli di campane, una nuova, onda di allegrezza si spandeva per la città.
La
gente si metteva in moto, gruppi di ubriachi, spari di tric-trac, ragazzi con
lanterne di carta, contadini con il tizzone acceso, braccialiedd' che andavano,
monelli che fuggivano paurosi, fingendo di avere inteso o visto, vero
pregiudizio, lu dupeminaro (lupo mannaro), e di qua e di là i
preti sagrestani delle tre Chiese, che con torce a vento o fiaccole resinose,
andavano in giro per chiamare i preti capitolari o canonici e accompagnarli
poi alla propria chiesa per le sacre cerimonie.
Secondo le parrocchie, il popolo andava a
S. Gerardo, alla Trinità a S. Michele, a S. Francesco nei tempi più antichi e
anche a Santa Maria, chiesa dei Riformati; ma per lo più a questa chiesa vi andavano quelli
più desiderosi di novità, giovanotti e figliole che amavano ritrarre
impressioni di fantasia e anche divertirsi in birichinate nel buio della
notte.
Minestra maritata e strascinari erano i
piatti caratteristici del Natale, si diceva maritata perché composta di
scarole, verze, finocchi, acci e cardani, facendola cuocere bene nel brodo di
gallina e di salami saporitissimi, mischiandovi anche formaggio grattugiato e a
pezzettini
“Li strascinari” erano pasta casareccia,
detti così, perché strisciati a forza di dita sulla “cavaruola” una tavoletta di
legno incisa a disegni.
Scolati cotti dal caldaio, si mettevano
a strati nel piatto condendoli di formaggio e brodo di cappone così da farne il
cibo più squisito delle nostre usanze: sicché ogni strascinari era un boccone
prelibato e ne bastavano una trentina a saziare il gusto e l'appetito di una
persona.
Nella chiusura dell'anno, la sera, si
andava prima ad assistere alla funzione di grazie nella chiesa di S. Francesco e poi si faceva una gustosa cenetta di rito in famiglia.
Il mattino di cap' rann' (capo d'anno) di
nuovo auguri a diritta e a manca e per le vie non si sentiva altro che: Buon'
cap'rann cumpà, cu tutta la famiglia — cent' di quest' giorn' e turnesi —
salut' e pruvirenza — na bella zita ricca — furtuna e fig? masch' — pace e
cuntantezza! e simili espressioni semplici, schiette ed affettuose.
A mezzodì s'inaugurava l'anno nuovo anche
con un pranzo di eccezionale prelibatezza.
Solo in queste feste e nelle solennità religiose
si aveva questo lusso popolare di una cucina casereccia, perché nelle domeniche ordinarie
bastava una minestra con bollito, fatto con miscela di salami, cioè di coria,
zappil', tustaredda, osso di spadduccia o di prisutt' (cotenna, piede, costola,
spalluccia, prosciutto), un pezzo di salsiccia o di pezzente che era
fatto con i minuzzoli più scarti del maiale.
Evviva i nostri nonni ! Evviva le feste di Natale!
(Fonte: Raffaello Riviello, Potenza 1893)