L'ALBERO DI NATALE (1)
La festa infantile dell'albero di Natale non è indigena del nostro territorio; i piccoli fanciulli latini e slavi la imitano dal vivente uso germanico; ma se i piccoli nostri fanciulli l'hanno presa in prestito da gente straniera, i grandi fanciulli che furono i nostri avi l'hanno molto bene conosciuta, per loro propria tradizione domestica.
Io intendo provarvi questa cosa, e cercare quindi l'antico significato, che essa ha potuto avere.
Io ho sempre notato che i giochi tradizionali dei fanciulli hanno un gran senso e questo dell'albero natalizio mi pare, fra tutti, il più poeticamente significativo; credo quindi che la storia dell'albero desterà pure la curiosità delle mie amabili lettrici e dei miei degni lettori.
Noi dell'albero natalizio non abbiamo conservato altro più che il ceppo; e festa del Ceppo è quindi chiamata in Toscana la festa del Natale.
Il Fanfani(2) scrive che, nella val di Chiana «la sera della vigilia di Natale, tutte le famiglie si riuniscono tra loro....; e, tra l'altre cose d'allegria che sogliono fare, mettono nel fuoco, intorno al quale si riunisce la famiglia prima della cena, un grosso ceppo di legna a bruciare; si bendano i bambini della casa, e così bendati si fanno battere colle molle sul ceppo, e nel battere si fa loro recitare una canzoncina detta l'Ave Maria del ceppo; la quale canzoncina ha la virtù di far piovere sul ragazzo ogni maniera di dolci, o altro, seconda la facoltà degli astanti».
E il ceppo del Natale, messo come simbolo d'augurio, con solenni dimostrazioni di gioia, ad ardere sul focolare, è usanza tuttora viva cosi nell'Italia settentrionale, come nella meridionale.
E che tal ceppo tenga fra noi il posto dell'intero albero, lo si può argomentare facilmente da un'altra simile usanza germanica, per la quale, in alcuni luoghi, nella notte di Natale, si va a picchiare alberi vivi, come, in Val di Chiana, il solo ceppo, affinchè nell'anno essi portino buoni frutti.
Nella Svizzera si crede che la nott di Natale tutti gli alberi si mettano in flore, e nella Svezia, se condo il viaggio di Arndt, che, chi vada dopo la mezzanotte di Natale nudo e in silenzio nella selva, al mattino, scoprirà sotto la neve le future biade verdi ed alte nella loro piena vegetazione.
Abbiamo qui dunque l'albero dell'abbondanza, vicino al ceppo, sotto il quale, secondo le nostre novelline popolari, si trovano nascosti tesori: i bimbi di Valdichiana picchiano il ceppo di Natale, affinchè li faccia ricchi di ogni grazia di Dio, come il figlio del mugnaio, in una novellina popolare russa(3), spaccando un albero ne fa cadere denaro, come l'albero dalle mele d'oro del giardino delle Esperidi (dove i pomi d'oro del Paradiso promesso ai nostri bambini), l'albero fortunato degli Iperborei, l'albero paradisiaco Haoma dei Persiani, Acvattha degli Indiani, Yggdrasill degli Scandinavi, Irminsul dei Sassoni dispensavano ai privilegiati mortali dell'età dell'oro ogni maniera di cibi ambrosiaci e di aurei doni.
L'albero natalizio carico di fiori e frutti, che i fanciulli di oggi sognano ancora è la microscopica riduzione del famoso Kaipadruma che sognavano i fanciulli di ieri.
Ma noi non cerchiamo qui l'albero come simbolo della ricchezza e dell'abbondanza, sì bene specialmente l'albero natalizio, ossia l'albero generativo.
Già l'uso del ceppo che si associa con la festa del Natale, ci fa supporre nel ceppo dell'albero, anzi nell'albero stesso, la figura del progenitore per eccellenza; nella Svizzera vi sono luoghi, ove, per ogni bambino che nasce, si pianta un albero(4) (come nella tradizione maomettana, esistente, secondo le lettere di Lepsius, in Egitto, si crede, che per ogni uomo che nasce spunti una nuova foglia nel grande albero mitico, simile all'albero della vita del paradiso Terrestre biblico), e, in alcuni luoghi della Germania, si usa ancora, quando muore il capo di casa, scuotere gli alberi, affinchè la generazione possa continuarsi.
Nel Tirolo(5) e in quasi tutta l'Italia settentrionale si usa che le popolane rispondoono ai fanciulli che pongono la indiscreta questione sul modo della loro nascita, che essi nacquero sotto il ceppo di un frassino o di una rovere.
E qui ci sarebbe da supporre che la credenza si sia diffusa nell'Italia settentrionale dalla Germania, se non avessimo parecchie testimonianze di autori greci e latini, i quali ci mostrano che la sfossa fiaba si raccontava già nell'antica Grecia e nell'antica Italia.
Presso Esiodo, il padre Giove crea gli uomini dai frassini, presso Apollodoro, il primo uomo Foroneo è pure creato da un frassino, presso l'ottavo dell'Eneide, Virgilio ci parla di una gente nata dai tronchi e dalla dura rovere (truncis e dura rovere nata), e Giovenale, nella sesta delle satire, degli uomini che una volta o nati e rompendo da una rovere o composti di fango non erano figli di alcuno (rupto robore nati, composi tive luto, nullos habuere parentes).
Da una tale credenza che noi ritroviamo pure nella remota antichità vedica, in cui, secondo il Rigvoda (X, 31 e 81), credevasi che anche il cielo e la terra fossero nati da un albero (come, secondo la tradizione persiana, Hom, lo zendico Haoma, fu al tempo stesso, l'albero bianco ambrosiaco del paradiso e il primo degli uomini, come nell'Edda di Snorri Sturleson la prima generazione degli uomini è attribuita ai figli di Boerr, che, in riva al mare, trovarono due alberi e ne fecero due creature umane), da una tale credenza, io ripeto, nella provenienza degli uomini dagli alberi, derivarono parecchie espressioni del nostro linguaggio, che adoperiamo con molta indifferenza, ma che hanno un senso singolare ed importante.
Quando noi diciamo d'un uomo che è disceso da un ceppo illustre, d'illustre stirpe, da uno stipite illustre, d'illustre lignaggio, paragoniamo ancora, se bene oramai inconsci, la famiglia, la razza ad un albero; e gli alberi genealogici per i quali, cerchiamo consolarci della gloria che non abbiamo saputo acquistare noi stessi menando vanto di quella che fece illustri i nostri avi che con le loro radici, con il loro tronco, con i loro rami, raffigurano materialmente l'immagine parola del nostro liguaggio.
« Noi siamo alberi piantati, nel campo del Signore, dice in uno dei suoi sermoni San Fulgenzio, ed il Signore è il nostro agricoltore. »
Simili immagini tornano frequentissime nel nostro linguaggio, come nella nostra letteratura; cosi diciamo ancora d'uomo di solida costituzione che egli è bene piantato, e piante si chiamano i piedi, come quelli, per i quali posiamo e vegetiamo anche noi sulla terra.
Viceversa poi accenniamo ai piedi dell'albero, alla chioma dell'albero, paragonando così l'albero all'uomo, come già l'uomo all'albero.
Tutto ciò mi sembra bastare a provarci come se in Italia la credenza stessa nell'origine dell'uomo dall'albero è quasi spenta, sussiste tuttavia nell'uso come nel linguaggio la memoria della credenza.
E il culto sacro che le nostre plebi più rozze serbano ancora a certi alberi creduti fatati, è un resto della antica religione che venerava le selve progenitrici e fatidiche; né valsero a rimuoverle dalla loro avita consuetudine le scomuniche frequenti che la chiesa latina e la greca lanciarono, nel medio evo, contro i cosi detti xilolatri o adoratori del legno, degli alberi daernonibus consecratae(6); il popolo muta la forma del culto, ma non l'oggetto; invece dei sacri onori a certi alberi, conserva per essi una specie di sacro orrore.
Così è che il paradisiaco acvaltha indiano, la ficus religiosa, in grazia allo zelo eccessivo dei missionari cattolici, assume in Italia il nome di albero del diavolo, a quel modo stesso con cui Vanaspati, il Dio del fuoco personificato dall'India antica nel legno, nell'albero, nella selva, divenne l'Isola di Giava, secondo il Bastian (7) un demonio, un maligno genio silvestre, è questa del resto, la sorte comune a quasi tutti gli dei e i demoni, che nel mutarsi delle religioni, si scambiano semplicemente le loro parti.
Se adunque l'albero del Natale non si festeggia ora in Italia altrimenti che per riflesso di una costumanza nordica, noi abbiamo parecchi indizi sia per l'uso del ceppo, sia per la credenza fanciullesca degli uomini nati dalle quercie o dai frassini, e sia per il valore primitivo di parecchi nostri vocaboli riferenti l'immagine dell'albero, che l'albero come generativo e natalizio, fu pure venerato in Italia.
Ma noi abbiamo di più qualche nozione d'una festa romana, che corrispondeva alla festa del nostro natale.
I quindici giorni che corrono dal 21 dicembre al 6 gennaio, nei quali l'anno muore e rinasce con l'invecchiare e ringiovanirsi del sole, furono sempre e sono ancora festeggiati con riti poeticamente simbolici dalle varie nazioni ariane.
Gli antichi romani celebravano le odierne feste natalizie tre giorni prima di noi, nel giorno del solstizio d'inverno, e lo chiamavano perciò il giorno natalizio dell'invitto sole (dies natalis solis invicti); noi abbiamo invece posposta di tre giorni la medesima festa, come posponemmo di tre giorni la festa del solstizio d'estate, che celebriamo, invece che al 21 il 24 di giugno, con i fuochi di gioia detti di San Giovanni.
E diciamo di tre giorni, non di quattro, perchè la vera festa del Natale, è la sera del 24 dicembre nella quale, il celeste bambino rinasce e va intorno, di casa in casa, dispensando doni e benedizioni ai bambini buoni della terra.
Il giorno dopo il mondo si rallegrerà perchè il Cristo, la più splendida trasformazione del Dio universale, ritornerà a splendere con forza crescente nel mondo; ma la nascita dell'augusto figlio del cielo, secondo la nostra credenza popolare e l'opinione degli astronomi, si compie fra il giorno 21 e tutto il giorno 24 dicembre, sera sacra di Natale, che a Boitzenburg, nell'Ukermark(8), il popolo assiste ad una finta battaglia simbolica fra una donna che rappresenta la stagione invernale ed una donna che rappresenta la stagione estiva.
Una tale usanza ci rivela ad evidenza il vero significato della festa del Natale, che, come altre molte feste, il cristianesimo ereditò dal mondo pagano.
Ma perchè la vera battaglia celeste del sole nascente non si compie in un solo giorno, si festeggia nel mondo cristiano come nel mondo pagano il Natale per una quindicina di giorni.
Nella festa del primo dell'anno, e in quella dell'Epifania si riproducono usanze simili a quelle che si notano nella festa del Natale propriamente detta.
Noi sappiamo come i romani usavano festeggiare solennemente il primo di gennaio, e come recavano intorno le così dette strenne, accompagnate da un augurale ramoscello di verbena; onde leggiamo presso Svetonio,
nella vita di Caligola, come questo imperatore, vago delle strenne delle calende di gennaio, soleva passare quell'intiera giornata nel vestibolo, ad caplandas stipes.
Ma la Chiesa non consacrò particolarmente quel giorno, e condannò anzi nel concilio di Auxerre del 613, come diaboliche quello strenne; nell'alta Italia si conserva, come è noto, l'uso delle strenne per il giorno del primo dell'anno, restando il Natale una festa particolarmente destinata ai bambini; in Toscana invece, ove il ceppo di Natale divenne pure sinonimo di strenna, bambini ed adulti possono fare la festa insieme.
Ma perchè la festa del sole nascente si congiunge con l'uso dell'albero?
Io lascio naturalmente stare da parte, nel suo mistero tutta la leggenda evangelica del nascimento del bambino Gesù, redentore del mondo.
Siccome l'uso del culto dell'albero e delle cerimonie che si compiono oggi ancora nel giorno di Natale sono più antiche del cristianesimo, è naturale che io debba cercare anche fuori del cristianesimo l'origine di quest'uso.
Il cristianesimo al suo apparire lo trovò già ben radicato, e somigliando meravigliosamente la sua nuova e stupenda leggenda divina all'antica tradizione mitica àryana, si valse di quell'uso per circondare di una nuova venerazione il Salvatore; e il presepio di Betlemme prese quindi posto vicino all'albero di Natale.
Nel presepio si adora il bambino Gesù, nell'albero il sole bambino; e l'uno e l'altro danno pari gloria a Dio, magnificando il sommo benefattore degli uomini.
Ma come nacque nel mondo àryano l'idea del sole personificato in un albero, del bambino che nasce dall'albero?
La sola mitologia ci dichiara l'enigma.
Il sole è il primo dei nati e il primo dei morti; nasce bambino, benefica adulto e muore vecchio, per rinascere allo stesso destino il giorno dopo; nasce, benefica e muore per rinascere nell'anno seguente; la sua carriera é splendida e gloriosa, ed il cielo è il suo campo.
Ma il cielo non è sempre un deserto; talora vi sono nuvole; vi sono nuvole bianche e nuvole nere; le nuvole crescono e sono chiamate crescenti; ma crescenti o vrikshàs è il nome che gli àrii hanno già dato agli alberi; quindi le nuvole quali crescenti raffigurate negli inni Vedici come alberi; dall'alba, la nuvola bianca, l'albero paradisiaco, esce fuori al mattino il giovane sole, il biondo bambino; dalla nuvola scura nella tempesta, dall'albero tonante, dalla quercia fatidica, vien fuori un'altra volta il sole adulto, dopo che ha combattuto con i demonii neri, coi krishnàs; ma come egli ha combattuto?
Con il fulmine; il fulmine per la sua velocità e voracità è paragonato a un uccello di rapina; anche esso vien fuori dall'albero e tuona; colpisce gli alberi della terra e tuona pure in essi; quindi le querce profetiche; quindi l'uccello picus che si personifica presso i Sabini nel fatidico albero ficus rumìnalis ed è al tempo stesso considerato come antichissimo re, come primo uomo, come progenitore di razza.
Secondo un'altra immagine, il fulmine si produce nel confricarsi dell'asse con la ruoti solare, ossia nel confricarsi del legno con il legno, che era il modo ove gli anti hi àrii accendevano il fuoco.
Qui ancora abbiamo dunque il legno, ossia l'albero generatore del fuoco.
Né queste spiegazioni sono superbe o capricciose ipotesi mie, ma semplici dati molto positivi che ci offre l'antica mitologia vedica.
Il Dio si produce nel cielo vedico, ora dall'acqua ed ora dall'albero o dalla selva; questa stessa immagine venne in breve trasportata sulla terra, e con molta facilità, osservandosi che il fuoco solare fecondava la terra di fiori e di frutti, quel fuoco stesso che gli àrii producevano confricando legno con legno, per un verso si venera come generatore e si considera per l'altro come generato dal legno, ossia dall'albero.
L'inno 29 del terzo libro del Rigveda ci dice che nei due legni attivo e passivo confricati per la produzione del fuoco, il fuoco è giacente, come nel seno materno le creature.
Mi riassumerò brevemente, i così detti uomini nati dagli alberi non sono altro, insomma, che figure divine del fuoco personificato.
Quei Dei nati dagli alberi supposti nel cielo, scesero col raggio solare e col fulmine a pigliar persona, a tonare, profeticamente, negli alberi della terra, come uomini divini.
Il fuoco fatto persona generò nella immaginazione degli àrii persone umane.
Si dimenticò l'origine celeste del mito, del simbolo si fece un idolo, e la poesia si convertì in superstizione.
Ora noi innanzi all'albero di Natale restituiamogli pure il suo senso primitivo e nessuno si vergognerà di essere tornato fanciullo per rallegrarsi intorno ad esso; poiche esso vi augura, amabili lettori, un nuovo sole più lieto del presente, fecondo di nuove allegrezze, ricco di ogni consolazione; esso simboleggia la gioia e l'abbondanza che vi desidera; e se io non ho saputo, come temo, interessarvi al suo passato, sarò pago, se, per le sue odierne oneste intenzioni e per la stima religiosa che gli professano i nostri piccoli soli nascenti, non gli vorrete negare un vostro benevolo sorriso.
(tratto da; L'albero di Natale di Angelo De-Gubernatis, Firenze 1870)
N O T E
(1) Lettura fatta dall'autore intorno all'albero di Natale, la sera del 24 dicembre; erano presenti alla festa Cesare Correnti, Giovanni Prati, Francesco De Sanctis, Antelmo Severini, Cesare Donati, Diego Martelli, Raimondo Brenna, Erminia Fuà Fusinato, con le loro famiglie, Teofilo Lenartowicz, Telemaco Signorini, Valentino Carrcra, Giovanni Arrivabene, sig. Brognikoff, Alessandro Dellabarba , Epifanio Perina, Achille Mannucci, ecc. e una bellissima nidiata di bambini;
(2) Vocabolario dell'uso toscano, sotto la voce Ceppo;
(3) Erlenvein, Narodnija Skaski, nov. 17, Mosca, 1863.
(4) Rochholz, Deutscher Glaube und Brauch, 2. Band, 84.
(5) Zingerle, Tirol Sitten, p. 2.
(6)Vedi più diffusamente a tale riguardo il Ducange, Glossarium mediae et infimae latinitatis s. v. Arborea sacrivi;
(7) Ber Meniseli in der Geschichte, II, 109;
(8) Cfr. Kuhn, Norddeutsche Sagen, Maerchen und Gebràuche.