EDOARDO SCARPETTA
Stranezze del caso! Contraddizioni della vita! Pochi uomini hanno forse pianto e sofferto tanto, nella loro prima giovinezza, quanto Eduardo Scarpetta—l’attore che doveva essere l’espressione più geniale e più schietta del riso.
La sua comicità è sgorgata dalle lagrime e dal dolore, e l’agiatezza è venuta—purtroppo!—dopo lunghe ed eroiche lotte sostenute con la fame e la miseria.
Quella che gl’invidiosi e gl’infingardi si ostinano a chiamare fortuna, non è stata dunque che il meritato premio a trent’anni di sacrifici e di lavoro! Il grande attore che trascina il pubblico fino all’entusiasmo e al delirio; che si permette oggi il lusso di aver carrozza e cavalli; che possiede al Rione Amedeo uno dei più grandiosi palazzi; e che ha edificato sulla pittoresca collina del Vomero una delle più ridenti ville napoletane, chiamandola col nome immortale di Santarella, era scritturato per la prima volta al San Carlino, il 22 ottobre 1868, con la paga di diciassette lire mensili.
Ecco il testo della scrittura che lo Scarpetta conserva ancora come uno dei più cari ricordi della sua vita: TEATRO SAN CARLINO, Impresa Mormone: « Io sottoscritto, Eduardo Scarpetta, mi dichiaro da ora scritturato nella comica compagnia, condotta e diretta dal proprie tario ed impresario del teatro suddetto, signor Salvatore Mormone, in qualità di generico di secondo filo, non escluse le ultime parti e quelle di poca o niuna entità. Mi obbligo parimenti di fornirmi di basso vestiario all’oltramontana, e senza aver diritto alcuno di pretenderlo dallo impresario. Mi obbligo eziandio di assistere a tutti i concerti, e convenire all’ora ed al luogo che sarà designato dall’impresario, signor Mormone, o da chi per lui. In caso la compagnia si recasse fuori Napoli, e in altri teatri per conto della impresa, io, sottoscritto, mi obbligo di seguirla, senza pretendere altro che il solo viaggio ed alloggio. Sono parimenti obbligato di ballare, volare, sfondare, tingermi il volto, essere sospeso in aria, se qualche produzione il richiedesse, ed in fine fare tutto ciò che mi verrà imposto, come anche cantare nei cori, e a solo, nei vaudevilles. A titolo di gratificazione, l’impresa assicura al detto Eduardo Scarpetta lire diciassette mensili, pagabili a quindicine, ognuna di lire otto e centesimi cinquanta, incominciando dalla quindicina del 27 prossimo mese di ottobre »
Napoli, 22 ottobre 1868. Salvatore Mormone
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Eduardo Scarpetta aveva allora 14 anni e 7 mesi, essendo nato il 13 marzo 1854. Suo padre, Domenico Scarpetta, era ufficiale di prima classe agli affari ecclesiastici al Ministero: un posto importante a quel tempo; e sua madre, Emilia Rendina, era una di quelle donne tenere, umili, devote, tutte dedite al lavoro e alla famiglia, come da un po’ in qua se ne va perdendo lo stampo. Ella era l’angelo consolatore della casa. E, quando, cominciate le prime sventure, entrò nella famiglia la miseria, la povera e santa donna non si perdette d’animo per questo, e, pur lottando con il bisogno, continuò a diffondere nelle domestiche pareti il suo dolce sorriso, ridonando spesso ai figliuoli e al marito la fede e il coraggio nei momenti più tristi e difficili.
Chi voglia leggere le memorie dello Scarpetta: Da San Carlino ai Fiorentini, pubblicate tre anni addietro con grandissimo successo, vi troverà pagine assai commoventi e particolari interessantissimi, che, data la brevità dello spazio, non è possibile riassumere in questo cenno biografico.
Eduardo Scarpetta rivive tutt’intero in quel suo libro, ch’è la storia più compieta, non solo di lui e dell’arte sua, ma del teatro comico napoletano, che, rappiesentato dapprima dal San Carlino, trovò poscia nel giovane attore il più audace riformatore.
La vita del celebre comico napoletano è, dalla sua nascita fino al 1880, tutto un romanzo, in cui l’umorismo spesso sorride fra le lagrime, e l’aneddoto rende più interessante e curiosa la storia di uno dei più gloriosi periodi dell'arte comica dialettale. Quel fanciullo, roseo e paffutello, cui gli amici e i parenti avevano appiccicato il nomignolo di Perticone, rimasto orfano del padre a soli quattordici anni, si trova subito costretto a lottare per farsi strada e procacciarsi un avvenire.
Se gli mancano i mezzi di fortuna e una istruzione completa, non gli mancano però l’ingegno e la volontà per poter conquistare il suo posto nell’Arte, per la quale già sente una vocazione irresistibile. Ed ecco che dalle rappresentazioni delle infantile—egli passa, un bel giorno, sul teatro. Chi lo raccomanda, e lo introduce al San Carlino è Andrea Natale—un buon attore e un ottimo amico — al quale il giovanetto si presenta accompagnato dalla mamma, vedova e povera.
Il palcoscenico gli serbava però ben altri dolori. L'attore, adolescente appena, cui già parevano un lauto compenso que’ pochi soldi di paga, strappati all’impresario Mormone, tornava a casa la sera stanco e affamato, dopo essere stato beffeggiato e deriso da quegli stessi attori, che avrebbero dovuto essergli larghi di protezione e di aiuto; e, a mano a mano, che il suo ingegno si sviluppava e progrediva, sentiva crescere in torno a lui il malcontento e la gelosia. Unico conforto gli restava sempie il grande affetto materno; ed anche ora—ricco, acclamato, felice—lo Scarpetta ricorda con infinita teneiezza la gioia e l’orgoglio, con i quali portava alla povera vecchietta, che lo attendeva ogni sera ansiosa e trepidadante alla finestra, quei pochi centesimi di paga, frutto del suo ingegno e del suo lavoro.
Disciolta poco tempo dopo, la compagnia Mormone al San Carlino, ritroviamo, nel 1871, il giovane attore alla Partenope, dov’era impresario Gennaro Palanga. Nello Scarpetta, costretto a sostener le parti più umili e perseguitato dalla miseria e dalla fame, nasceva a un tratto la fregola del commediografo; e in quei brevi momenti di riposo che gli concedeva la vita del palcoscenico, egli andava almanaccando commedie e farse, che poi scriveva la notte, rubando le migliori ore al sonno, mentre? l'adorata vecchietta dormiva nella camera attigua.
Spesso l'alba lo sorprendeva ancora intento a scrivere. Ottenne, infine, di far rappresentare alla Partenope una farsa in un atto: Pulcinella creduto moglie di un finto marito; e provò cosi anche le ansie e le gioie del commediografo festeggiato ed applaudito, dopo aver provato i
tormenti e le prime soddisfazioni dell’attore. Gaetano Pastena, dirigente la Partenope, e il pulcinella Raffaele Marino intravvidero in lui, fin da allora, una giovane speranza del teatro comico napoletano, mentre Antonio Gagliardi —artista eccellente nel genere drammatico, scritturato allo stesso teatro—affermava essere lo Scarpetta la vera negazione dell’Arte.
Il giovane attore era, infatti, nel genere serio proprio quel che in gergo teatrale suol dirsi un cane; e si meritava davvero le strapazzate, che il Gagliardi non gli risparmiava ad ogni occasione. Una sera si rappresentava Benvenuto Cellini — un dramma famoso a quei tempi— e allo Scarpetta era stata assegnata la parte di uno dei discepoli. In mezzo alla scena, su di un tavolo, c'erano grossi pezzi di bronzo, raffigurati, si intende bene, da forme di carta pesta, dipinte del colore di quel metallo; e, al finire dell’atto, il sommo scultore, come invaso dalla febbre di una delle sue grandi creazioni artistiche, additando quel tavolo, gridava: — Il getto... il getto !... Presto, figlioli!
E scagliava poi in un enorme crogiuolo i pezzi di metallo, che i discepoli gli porgevano ansando e sudando sotto il gran peso. Ebbene? sapete, invece, che cosa fece lo Scarpetta? Cominciò a porgere a Benvenuto quei grandi e pesanti pezzi di bronzo con la stessa grazia e la stessa leggerezza, con le quali avrebbe potuto offrirgli un’arancia o una mela, e non si avvide della sbadataggine, se non quando uno degli spettatori gridò dalla platea: — Neh ?... ma che so’ ?... Piezze abbrunzo o pane e Spagna? Nel tempo stesso il Gagliardi, volte le spalle al pubblico, fulminava il giovane attore con una delle sue più torve occhiate, esclamando: — Assassino!... Che fai?... È bronzo!... E bronzo!... Lo Scarpetta restò interdetto, scombussolato; e, finito lo spettacolo, chiese al Gagliardi mille scuse con le lacrime agli occhi, promettendo di essere più attento un’altra volta. Ma, invece, fu peggio!
Due sere dopo, in un dramma, di cui mi sfugge ora il titolo, al finale del secondo atto, lo Scarpetta doveva venire in scena con un’ampollina d’aceto, mentre una cameriera recava un bicchiere d’acqua in un vassoio. Invece il trovarobe, stordito dalla fretta, dette a lui il bicchier d’acqua, ed egli, più stordito del trovarobe, venne fuori dicendo: — Ecco l’aceto !...Ma quella volta non la passò liscia. Antonio Gagliardi, livido per la rabbia, non riuscendo più a contenersi, gli lanciò tutta l’acqua in viso, bagnandolo da capo a piedi. Egli non sapeva spiegarsi le balordaggini del giovane, e cominciò infine a credere che le commettesse apposta per non recitare più nelle parti serie. Ma la verità era semplicemente questa: che egli le commetteva senza volere e senza accorgersene, perchè nel repertorio serio si trovava come un pesce fuor d’acqua. E questo lo aveva compreso anche il pubblico, e così bene che, appena lo vedeva, scoppiava a ridere, il che guastava l’effetto delle migliori scene, e lo faceva rodere dalla rabbia.
Abbandonato il genere serio, lo Scarpetta si dette ai vaudevilles ; e vi ottenne così grande successo che la sua paga fu presto aumentata a 40 lire mensili! Finalmente, adescato da una scrittura di lire due e cinquanta il giorno, offertagli da Carlo Pecoraro, suggeritore nella compagnia del celebre Bozzo, si decise a partire per Catanzaro il 9 ottobre 1869. Che disastroso viaggio! Quanti rabuffi ed umiliazioni ad ogni papera e ad ogni beccata del pubblico! Il Bozzo era furibondo, e lo Scarpetta non vedeva l’ora di tornarsene a Napoli, dove la sua povera e vecchia mamma lo attendeva contando le ore e i minuti.
Tornato a Napoli, riesce a farsi scritturare di nuovo alla Partenope; e debutta nel dramma così popolare a quei tempi: Otto mesi in due ore o Gli esiliati in Siberia. Doveva scendere con altri due compagni da alcune montagne, che erano dipinte in fondo al palcoscenico, e dire, giungendo davanti al pubblico: — Ora possiamo riposare un’ora in questo luogo, indi, sedeva su d’un macigno, posto a un lato della ribalta, e si fermava un momento a discorrere con i suoi due compagni: altre venti o trenta parole in tutto. Ecco la grande parte, che aveva finalmente ottenuta dal Gagliardi, il quale, annoiato delle sue insistenze, gli aveva detto con un certo risolino incredulo: — Mo’ vedimmo citello che saie fa! . Venne la sera della rappresentazione, ed egli che si era prefisso di volere ad ogni costo sbalordire tutti con il suo trucco, riuscì invece a farsi deridere. Ed era, infatti, semplicemente mostruoso con quel viso impiastricciato di mimo, solcato di rughe segnate a vigorosi tratti di carbone, con gli occhi rilucenti sinistramente in fondo alle occhiaie incavate, e quel gran barbone bianco, che sembrava un’appendice della parrucca.
Fulminato dalle occhiate del Gagliardi, che non lo perdeva di vista un solo istante, egli esce infine alla ribalta; resta un po’ interdetto; e infine, sedendosi sul macigno, si rivolge agli altri due tartari, e dice: — Ore possiamì riposavo un’ore in questi loco!. Lascio immaginare a voi quello che successe a queste parole: urli, fischi, risate, un vero pandemonio infernale. Lo Scarpetta se ne scappa fra le quinte avvilito, tremando come un malfattore, mentre il Gagliardi gli dà il colpo di grazia, esclamando con il più crudele dei suoi sorrisi: — E tu si’ chillo ca si’ stato cu Bozzo!
Qual nome e quale terribile rievocazione! Egli cadde su di una sedia implorando aiuto, come quell’altra sera memorabile, in cui Michele Bozzo, con gli occhi torvi, il viso livido, lo aveva quasi inseguito fra le quinte, allorché in Elisabetta regina d’Inghilterra, invece di dire: È partito a spron battuto verso la torre, rispose: È spartito a spron battuto verso la sponda. Che urli, che fischi, che villanie anche allora! Fu quella l’ultima volta che recitò nel serio!
Di lì a poco , su quello stesso palcoscenico, doveva rivelarsi per quel grande attore che è in Feliciello Sciosciammocca, mariuolo de na pizza. Aveva finalmente trovato la sua via! E, di punto in bianco, diventava un tipo, un carattere, una personalità spiccata del teatro comico napoletano. Giuseppe Luzi lo scritturava subito al San Carlino con la paga di cinquanta lire mensili; e il battesimo d’artista, conferitogli su quel teatro, dove recitavano i maggiori attori del tempo: l’Altavilla, il Petito, il Di Napoli e il De Angelis, gli spalancavano a due battenti le porte della fama e della popolarità. Antonio Petito scrisse apposta per lui la famosa farsa: Féliciello creduto guaglione de n’anno; e il favore del pubblico cominciò a crescere a tal segno intorno al nuovo scritturato da destare subito l’invidia di quei grandi attori, che sentivano ormai di esser troppo vecchi, eppure non sapevano rassegnarsi alla triste e inesorabile sorte che li attendeva.
Pulcinella e le altre vecchie maschere napolitane perdevano ogni giorro terreno; e il Petito doveva adattarsi a fare anche da mimo e da ballerino per divertire il pubblico. Con la morte di lui e del Luzi la fine del San Carlino diventava ormai irreparabile. La vedova Luzi, incapace di menare innanzi il glorioso teatrino di piazza Castello, ne aveva affidato la direzione a Errico Campanella. Ciò non pertanto il San Carlino era diventato una vera Torre di Babele; e lo Scarpetta ne uscì nel 1877 per entrare nella compagnia di Raffaele Vitale, che faceva affari d’oro al Metastasio di Roma. Qui vi furono rappresentate con entusiastico successo le prime sue commedie: Amore e polenta, Lu curaggio de nu pumpiere, Nu nuzurato, Na mmaretata e na pistulettata, Il primo amore di don Felice Sciosciammocca.
Al Metastasio lo Scarpetta restò sino a tutto marzo 1878. Indi, chiamato dalla vedova Luzi, tornò al San Carlino, dove le cose andavano sempre di male in peggio, e scrisse una commedia fantastica: Lu testamiento de Parasacco. Furono però inutili sforzi! Dopo tre mesi la signora Luzi era costretta a dichiarare il fallimento e a sciogliere la compagnia. I vecchi comici del San Carlino, fra i quali Raffaele di Napoli, Pasquale De Angelis, Gigia Della Seta e Adelaide Schiano, si unirono allo Scarpetta, e presero in affitto un teatrino di legno al Molo, poco lungi dall’Arsenale, battezzandolo col nome di Metastasio. Di là Eduardo Scarpetta passò, nel 1878, al Quirino di Roma, scritturato da Giovanni Gargano e Gennaro Visconti, e, poi, al vecchio Metastasio, dove al Vitale era succeduto nell’impresa certo Raffaele Troiani. Questa ultima scrittura fu però assai meno fortunata delle altre per il giovane attore, che tornò a Napoli carico di allori, ma anche di... debiti e di polizze di pegni.
Dopo una buona stagione fatta a Napoli al teatro delle Varietà in piazza Castello, lo Scarpetta partì, scritturato dal marchese di Sant’Elia e dal signor Luigi Berlingieri, per una prima tournée in Alta Italia. Gli affari andarono a gonfie vele. Don Felice fu acclamato e ammirato dappertutto; ed, unitosi a Milano con il FerraviIla e con la Ivon, dette una serata rimasta indimenticabile. Al ritorno, la compagnia dette venti recite al Goldoni di Livorno, che furono altrettante piene; e, finalmente, venuto a Napoli, lo Scarpetta potè realizzare il più bel sogno della sua vita. Con cinquemila lire sborsate, a furia di preghiere e d’insistenze, dall’avvocato Francesco Severo, riaprì il vecchio e glorioso San Carlino.
Che serata memorabile fu quella del primo settembre 1880! Il piccolo teatro fu inaugurato con La presentazione di una compagnia e la vecchia farsa: Feliciello e Felicella. Sul cartellone brillava intanto l’annunzio di sei commedie nuove: Tetillo, Mettitene a fa l'ammore cu me, Nu zio ciuccio e nu nepote scemo, Tanta mbruoglie pe na fumata de pippa, Scioscammocca e Pulcinella a Milano, Na mazziata doppo mangiato.
Ma non furono rappresentate che le due prime indi si dettero: Duje marite mbrugliune, Il romanzo d’un farmacista povero, Lo Scarfalietto, La Nutriccia, Tetillo nzurato, ecc... Un soffio di vita nuova passò su gli avanzi polverosi del passato: sulle vecchie tradizioni, sui vecchi metodi di recitazione, sulle viete usanze del palcoscenico.
Eduardo Scarpetta si rivelò subito come il riformatore, il creatore del vero teatro comico napoletano. Egli vivificò con l’arte sua, così fresca, così originale, così nuova, quell’organismo ormai decrepito; gli infuse tutto il suo sangue giovanile; operò sul San Carlino il miracolo di Lazzaro e di Faust! Primo fra tutti, egli intuì le esigenze dei tempi nuovi;- e tutto volle rifar daccapo con quell’entusiasmo e quella tenacia, che vent’anni di successi trionfali non sono valsi a sopire in lui.
Dal bozzolo di Pulcinella uscì, come una bella crisalide luccicante al sole, Don Felice Sciosciammocca. Da un cadavere venne fuori una persona viva: un tipo, un carattere, un personaggio, che, allontanandosi da tutto il ciarpame antico, additava all’arte teatrale una nuova via secura e luminosa. Il pubblico si avvide, infine, di essere stato compreso; e sulla tomba di Pulcinella eresse la statua di Don Felice. Eduardo Scarpetta—salutato come un genio del teatro vernacolo — fu ben presto ricoperto d’oro e di onori. La cassa forte, comperata da lui con le prime cinquecento lire guadagnate con il suo ingegno e con il suo lavoro, e che fin allora non aveva accolto altro nel suo ferreo grembo che delle polizze di pegno, cominciò a impinguarsi di bei biglietti da mille; e l’attore, ascendendo la sua parabola luminosa, fu visto un bel giorno alla Riviera in una elegante vittoria, tirata da due superbi morelli.
Tutto a un tratto i cavalli s’impennano; e il timone, urtando con violenza contro un’altra carrozza, ne manda in frantumi i fanali. —Ma imparate prima a guidare! esclama furibondo il signore della carrozza. —E appunto quello che faccio! risponde, serio serio, lo Scarpetta. E l’incidente, manco a dirlo, è esaurito con una clamorosa risata. Scarpetta diventa in breve tempo il personaggio più popolare di Napoli. Non si parla che di lui!... Non vi è che lui! E', del resto, impossibile scompagnare il suo nome da quello del San Carlino. L’uno completa l’altro; e tutti e due formano la letizia dei napoletani, che corrono ad abbeverarsi ogni sera a quella fonte inesauribilr di allegria e di buon umore.
Nello Scarpetta l’attore genialissimo è completato dal capo comico impareggiabile e dal commediografo fecondissimo. Nessuno come lui può dire di avere un repertorio proprio, personale, scritto tutto da lui; e quando si consideri che questo repertorio conta ormai non meno di novanta commedie, fra originali e ridotte, non si può reprimere un senso di ammirazione e di stupore pensando: Ma come mai un uomo può aver lavorato tanto in soli vent’anni di vita artistica? E, infatti, difficile imbattersi in un lavoratore più infaticabile di lui. La sua opera, compiuta rella sua triplice qualità di attore, di capocomico e di commediografo, è davvero straordinaria; nè si sa bene sotto quale di questi tre diversi aspetti ammirarlo di più.
L’attore non ha certo rivali, specie se considerato sotto il lato della sua comicità così schietta e irresistibile; il capocomico non teme raffronti per l’intuito sicuro della scena e l’arte di ottenere quella fusione, ch’è da vent’anni il principal requisito della sua compagnia; il commediografo, infine, non è solo ammirevole in quanto crea di suo, ma anche in quanto si assimila prodigiosamente dagli altri.
Se Miseria e Nobiltà è un capolavoro di commedia originale, non sono per questo meno capilavori del genere: La mitricela, Il farmacista povero. Lo Scarfalietto, Tettilo, Na Santarella, Pupa movibile, Na criatura sperduta, e tante altre fra le sue più belle riduzioni dal francese, che contano ormai centinaia di rappresentazioni.
Egli rivive in ognuno dei suoi lavori, e penetra così addentro alle commedie altrui, che queste diventano sue. Riducendo e rifacendo egli crea: crea un ambiente nuovo, tipi e personaggi nuovi, scene e situazioni comiche, delle quali spessissimo manca perfino lo spunto nei copioni originali. Che resta , dunque, del lavoro degli altri? Appena, appena il punto iniziale di partenza, giacché ben pochi sarebbero in grado di riconoscere più il quadro, dopo che lui lo ha rifatto e ritoccato.
Il fondo è mutato, i toni sono diversi, le figure non hanno più la primitiva espressione, l’ordine è tutto mutato, quando non è invertito addirittura. Egli taglia, sfronda, aggiunge, pospone o antepone: smonta, per dir così, scena per scena, l’organismo della commedia che vuol ridurre, e poi ricostruisce tutto daccapo, come meglio gli suggeriscono e lo guidano la sua grande perizia scenica e il suo intuito prodigioso. Ecco ciò che a questo proposito scriveva Peppino Turco nella sua bella lettera-prefazione alla Figliola romantica e un miedeco curioso, la geniale riduzione in versi martelliani napoletani che lo Scarpetta fece, tre anni addietro, della Donna romantica del Castelvecchio: Questo — diceva l’illustre critico e giornalista — "è il vostro segreto, è questa la ragione dei vostri successi. L’ho scritto per un quarto di secolo nei giornali e non vedo ragione di tacerlo in questa lettera: la riduzione scarpettiana rinnova quasi sempre la commedia che ha per le mani; aggiunge in meglio, toglie il peggio e fa spesso sopravvivere a lungo ciò che era nato per una rapida apparizione e poi morire. E’ questo il procedimento cui dovete la creazione di un repertorio e il favore che l’accompagna; favore che vi permette di prolungare, come siete già in via di fare, per otto mesi di seguito, la stagione di prosa della vostra compagnia ai Fiorentini. Così, mentre la Casa di Goldoni aspetta di sorgere a Roma, la Casa comica napoletana ha messo già le sue basi tra noi."
E che lo Scarpetta crei anche quando riduce lo hanno ormai scritto e ripetuto i critici, i giornalisti e gli attori più illustri. Il compianto Michele Uda, critico certo non sospetto di soverchia indulgenza, discorrendo del rinnovamento del teatro comico-napoletano, esprimeva in questi termini il suo giudizio sullo Scarpetta: "Bisogna andare al S. Carlino per avere un’idea del garbo, del talento, e anche dell’originalità con cui vanno fatte le riduzioni. Lo spirito, il buon senso, il rispetto all’arte si sono oggi rifugiati nella topaia che fu un tempo la reggia di Pulcinella. La topaia l’hanno imbiancata, inverniciata, dorata, e di Pulcinella se ne vede appena quel tanto che basta a rallegrare i pochi che amano la barzelletta oscena e la risata grassa. Alle porte del San Carlino si fa ressa, come alle prime dei Fiorentini, nei gloriosi quarantanni dei quali Adamo Alberti scrisse la storia. Se questo è un miracolo, il santo che lo fece, è un attore nel quale la mobilità della espressione comica si accoppia mirabilmente alla naturalezza del portamento, del gesto e della parola. Metteteci di giunta una intuizione sicura degli effetti scenici ed un talento di assimilazione che dà alle riduzioni dei lavori altrui, francesi o italiani, quell’impronta di schietta originalità, onde, in parte, è spiegata la voga che oggi ha fra noi la commedia in dialetto ».
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E, dopo di ciò, quale meraviglia se le più fulgide illustrazioni dell’arte scenica, come Adelaide Ristori e Tommaso Salvini, vanno, sempre che possono, a rinfrancarsi lo spirito al teatro, dove recita il gran maestro dell’arte comica dialettale — colui che, sprezzando la parrucca, i cerotti e tutti gli altri lenocinii del palcoscenico, si serve solo della sua faccia così espressiva, così caratteristica, così mobile, così viva per far vibrare tutta la gamma della comicità più fresca ed inesauribile? Quel volto, che è il più raro dono che potesse fargli la natura, è come uno specchio meraviglioso, che lascia scorgere i moti più intimi e riposti dell'anima; ed è per questo che con uno sguardo, con un aggrottare di ciglia, con una strizzatina d'occhi maliziosi, con una semplice contrazione di labbra egli ottiene effetti, che raramente riescono a raggiungere altri attori con i loro trucchi sapientemente studiati ed elaborati.
L’arte dello Scarpetta è, sopra tutto e innanzi tutto, nella semplicità dei suoi mezzi. Egli vive, non recita sul palcoscenico. E questo ebbe anche a notare Maurizio Hennequin, il fecondo scrittore di pochades, che, capitato a Napoli mentre lo Scarpetta dava al Fiorentini la 20a rappresentazione di Madama Rollò e Ci., non seppe resistere alla tentazione di sentire la fortunata riduzione dialettale della sua Coralie e C.ie e di conoscere personalmente il celebre attore napoletano, a lui già noto per la bellissima riduzione del suo Bebé.
Dopo aver riso a crepapelle per tutto lo spettacolo, il fecondo commediografo parigino volle personalmente congratularsi con il geniale artista napoletano, esprimendo nei termini più lusinghieri la sua ammirazione per la comicità così spontanea e così irresistibile dello Scarpetta e per la semplicità davvero straordinaria dei suoi mezzi. Egli insistette, infine, perchè lo Scarpetta si recasse a Parigi per darvi un corso di recite con la sua compagnia, e concluse: — A Parigi fareste fortuna!
E, infatti, se Eduardo Scarpetta fosse nato a Parigi, sarebbe di già tre o quattro volte milionario. Nato a Napoli, egli é semplicemente Ricco; e ciò gli basta, giacché alla gloria, al danaro, all’arte e al teatro, che sono pure la sua vita, egli antepone l’affetto della famiglia.
È questa la sua vera gioia e il suo conforto! A 48 anni egli venera ancora sua madre come un bambino, e la circonda delle cure più tenere e premurose. Trova nella sua buona e gentile signora la più dolce compagna della sua vita; ha un collaboratore prezioso in suo figlio Vincenzo, destinato a continuare le gloriose tradizioni paterne; e si consola nell’affetto dei suoi nipotini — i cari bimbi di suo figlio Domenico, l’avveduto e intelligente amministratore della compagnia.
Ma fra tanti fiori d’affetto, dolcemente dischiusi intorno a lui nella pace serena della famiglia, uno è più vivido e olezzante di tutti; e quel tenero e delicato fiore, sbocciato al tepore delle più trepide carezze, è l’ultima sua bambina, Maria — un amore di bimba, che a undici anni è già un portento di grazia e d’ingegno.
Quella pallida e gracile fanciulla dagli occhioni intelligenti e profondi e dai capelli d’oro è la piccola fata di casa Scarpetta: è la musa ispiratrice di lui; è la più fulgida e rosea speranza del grande attore; è il sorriso più vivido dell’arte sua—di quell’arte che ha procurato e procura ancora al pubblico tante ore liete, e che pure è costata, nei primi anni, tante ore di sconforto, tante disillusioni amare e tante lagrime amorosamente riasciugate da quella vecchietta, che, fra gli agi e la gloria del figliuolo adorato, vive ancora come una reliquia e un monito del passato, come la più santa memoria dei giorni tristi nei lieti giorni d’oggi.
(Biografia aneddotica a cura di Montaldo Prof. Enrico, Napoli marzo 1902)