ALBERI NATALIZI
USO E COSTUMI DI ALTRI TEMPI
Dell'albero natalizio, noi non abbiamo conservato più altro che il ceppo, la festa di Ceppo è quindi chiamata in Toscana la festa del Natale.
Il Fanfani, nel suo piccolo Vocabolario dell'Uso Toscano, scrive che nella Val di Chiana, la sera della vigilia di Natale, tutte le famiglie si riuniscono tra loro, e, tra l'altre cose d'allegria che sogliono fare, mettono nel fuoco, intorno al quale si riunisce la famiglia prima della cena, un grosso ceppo di legno a bruciare; si bendano i bambini della casa, e, cosi bendati, si fanno battere con le molle sul ceppo, e nel battere si fa loro recitare una canzoncina detta l'Ave
Maria del Ceppo; la quale canzoncina ha la virtù di far piovere sul ragazzo ogni maniera di dolci, o altro, secondo la facoltà degli astanti.
Il ceppo del Natale, messo come simbolo d'augurio di fecondità alla casa ed al campo, con solenni dimostrazioni di gioia, ad ardere sul focolare, è usanza tuttora viva in ógni provincia italiana ed in molte parti della Francia, specialmente in Provenza, ove si va solennemente a levare il ceppo o tréfoir per collocarlo sul focolare della cucina o della stanza del padrone di casa.
Nel portare il ceppo si cantava: « Si rallegri il ceppo, domani è il giorno del pane (il panettone milanese, simbolico dell'abbondanza di pane che si spera avere per tutto l'anno, come l'enorme ceppo è simbolico della vegetazione, della vita che si spera far durare tutto l'anno, da un Natale all'altro); ogni grazia di Dio entri in questa casa; le donne facciano figliuoli, le capre capretti, le pecore agnelletti, abbondi il grano e la farina, e si riempia la conca del vino. »
Si fa quindi venire il più piccolo bambino della casa, il quale deve accostarsi al ceppo, spandervi come una benedizione un bicchier di vino, dicendo, s'egli è da tanto: in nomine Patris, ecc.; s'ei non può, c'è sempre chi deve dirlo per lui, affinchè la benedizione abbia il suo effetto. Mettesi quindi il ceppo al fuoco; e per tutto l'anno si conserva una parte del carbone del ceppo, per farlo quindi entrare nella composizione di parecchi rimedi superstiziosi.
Posseggo un libercoletto abbastanza raro, intitolato: Curioso discorso intorno alla Cerimonia del Ginepro, aggiuntavi la dichiarazione del metter Ceppo e della Mancia solita a darsi nel tempo del Natale, stampato a Bologna nell'anno 1621, che per intero riporto di seguito a titolo di curiosità:
« Benché per consuetudine anticamente introdotta non senza qualche mistero, sia costume ogni anno nella Vigilia del Santissimo Natale di N. S. ed in altri giorni ancora, come l'ultima sera dell'anno e vigilia dell'Epifania, distribuirsi nelle case e abbruciarsi il Ginepro, e in particolare qui in Bologna; nondimeno pochi per avventura facilmente sapranno la significazione di così fatta usanza, al desiderio de' quali avendomi immaginato dover apportar qualche soddisfazione, dichiarando (per quanto a me pare molto verosimile) il secreto di quest'uso, avendo osservato ciò che scrivono gli Autori in materia dello stesso Ginepro, mi son compiaciuto notarlo nel presente foglio con applicazione (a mio giudizio) assai convenevole. Dioscoride adunque, il quale fiori sotto Cleopatra e Marcantonio nell'Egitto, imperando Ottaviano Augusto secondo imperatore di Roma, al primo lib., cap. 87, e Plinio che visse ai tempi di Vespasiano, decimo imperatore di Roma, nell' His. nat. al lib. 16, cap. 26, 40, 41, e lib. 24, cap. 8, il Mattioli sopra Dioscoride e il Durante nel suo Herb. in questo loco, scrivendo le virtù del Ginepro, dicono le medesime cose del legno, foglie e bacche di esso Ginepro; chi desidera saperle minutamente legga i predetti Autori. Trovasi dunque scritto presso gli autori suddetti che facendosi profumo del legno del Ginepro si scacciano le serpi dal loco profumato, che il succo delle foglie e delle bacche di esso Ginepro bevuto, giova mirabilmente a' morsi delle vipere e d'altri animali velenosi. Volendosi applicar moralmente quello che naturalmente è scritto, ben potiamo noi dire che altro non significano le vipere, le serpi e gli animali velenosi e i morsi loro che i peccati; e perciò la Scrittura sacra n'avvisa, dicendo: quasi a facie colubri fuae peccata e nella Genesi abbiamo che, avendo peccato Eva e riprendendola Dio ch'ella avesse trasgredito il comandamento, quella rispose: serpens seduxit me, cioè il serpente m'ha ingannato. Il che pur anche viene accennato in quelle parole dell'inno della Passione, quando pomi noxialis morsu in mortem corruit, intendendosi de' nostri primi padri Adamo ed Eva, i quali per lo morso ch'eglino diedero nel pomo vietato, incorsero nella morte. Però da questo siamo avvertiti che in qualunque tempo ci troviamo mortificati da questi serpenti velenosi de' peccati, non tardiamo a correre al Ginepro, facendo profumi per mezzo della confessione, prendendo le foglie di esso, che al toccare sono pungenti, significandoci la compunzione del core e le mortificazioni del corpo, gustando il succo delle bacche cosi amare al gusto, piangendo le colpo commesse, e dicendo con Giobbe: loquar in amaritudine, che a questo modo resteremo liberi e risanati affatto. La decozione del legno del Ginepro giova mirabilmente alli gottosi, e suol farsene bagno, dove ponendo la parte offesa, quei che patiscono la gotta restano liberi dal dolore di quella. In questo ci si dà a considerare che quanti hanno la gotta, per la quale può significarsi la pigrizia, e l'accidia al ben fare (che purtroppo alcuni si trovano così sonnacchiosi e negligenti nelle cose pertinenti all'anima, che di rado vi pensano), questi prendendo la decozione ed entrando nel bagno del Ginepro, saranno più solleciti e diligenti nelle cose di Dio, liberandosi dalla gotta dell'accidia. Il carbone del Ginepro acceso e della propria cenere coperto (se credere vogliamo agli alchimisti) dura e conservasi vivo un anno intiero; di qui caviamo documento morale, che noi dobbiamo accenderci del fuoco della carità verso Dio e verso il prossimo ricoprendoci con la cenere del Ginepro, che dinota l'umiltà umiliandoci nel cospetto di Dio e degli uomini, che a questo modo si accenderà in noi un fuoco d'amore inestinguibile. Le bacche del Ginepro sono di colore violaceo o morello (che dir vogliamo), il qual colore, come abbiamo nella Rubriche del Messale dei colori dei paramenti, la Chiesa sia per costume usare in diverse occasioni e nei tempi di Quaresima e dell'Advento, il che ciascuno può aver osservato in questi giorni, i quali son tempi di penitenza; nel che siamo esortati a far frutti di penitenza e ad udir quella voce di Giovanni che grida nel deserto: Vox clamantis in deserto, parate viam Domini, rectas facite semitas eius. Il legno del Ginepro dura le centinaia d'anni, non guastandosi o corrompendosi da tarli, onde cantò il Mantuano di quest'arbore: addam et juniperos carie impenetrabile robur; e Plinio scrive trovarsi una specie di Ginepro, il quale cresce a tanta altezza che di esso commodamente possono farsi travi por uso e servigio delle fabbriche; e racconta che Annibale Cartaginese in un tempio che egli edificò a Diana Efesia, fece porre i travi di Ginepro, acciò che avessero a durare per molte e molte etadi. Noi potiamo imparar da questo che dobbiamo prendere il legno del Ginepro, cioè la croce di Cristo Redentore, facendono travi grandi nel tempio dell'Anima nostra, perchè Templum Dei estis vos, dice l'Apostolo, e l'arbore della Croce è così grande che la sommità di esso tocca il cielo, come disse Cristo: ego, citm exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum.
La scorza del Ginepro abbrugiata, ridotta in cenere e mischiata con acqua, a guisa di unguento, giova alla rogna e alla lebbra untandosi; la cenere in questo loco può significarci la cognizione di noi stessi, la quale ci viene ridotta a memoria il primo giorno di Quaresima da santa Chiesa nella Cenere postaci sul capo con le parole aggiunte: Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris; l'acqua ci dinota le lagrime, effetto della cognizione propria, la quale facendoci conoscere la gravezza e bruttezza dei nostri peccati, facilmente s'induce a confessarli, e per conseguenza fa che, piangendoli con amarezza di core, per quelle lagrime restiamo netti e mondi dalla lebbra dei peccati. Molte cose per brevità si lasciano, le quali, senza dubbio, son più che le sin qui descritte. Potevasi dire ancora che il Ginepro ha le medesime virtù che il Cedro, l'uso del quale serviva nelle cose sacre, e di esso gli Antichi soleano fare i simulacri degli Idoli loro, onde leggiamo che di Seleucia fa condotto a Roma un Apollo di cedro. Si che conchiuderemo che questa cerimonia del Ginepro non ha del Gentile e non è punto superstiziosa, ma tutta con misterio e però dobbiamo tutti mostrarci pronti ad accendere e abbrugiare il Ginepro e nel gettarlo sul fuoco consideraremo che essendo arbore odorifero, nell'abbrugiarsi rende odore, e il suo fumo sale in alto, nel qual atto consideraremo che le nostre orazioni deono ascendere ed arrivare all'orecchio di Dio (che non si deve lasciare di dire almeno divotamente un Pater et Ave Maria, mentre lo poniamo sul fuoco) acciò che ivi gionte ci impetrino da Sua Divina Maestà una purità di mente e di core e
grazia d'emendarci presupponendo che ogni buono e timorato cristiano s'abbia a confessare in questo Santissimo Natale per rinascere col nascente Salvatore a vita più lodevole e migliore. E sarebbe ancora considerazione di molt'utile il ridursi a memoria, che si come il profeta di Dio Elia, il quale là al Torrente Cison aveva ammazzato i profeti di Baal al numero di 450, fuggendo l'ira di Jezabele moglie di Achab Re d'Istrael (com'è scritto nel terzo de'Re al cap. 19), venne in Bersabea di Giuda, e camminò nel deserto un giorno intiero, e sedendosi sotto un Ginepro si addormentò all'ombra di esso, ristorò l'indebolite forze, camminando poi francamente al Monte di Dio Horeb, così noi, riposandoci a piè della Croce di Cristo, considerando quanto egli vi patì sopra per amor nostro, ci addormenteremo in questa divota meditazione, ristorando le forze sì, che poscia risvegliati, con minor fatica potremo salire il monte che è Cristo, cioè all'eterna Gloria, nella quale piaccia a Sua Divina Maestà darci loco, per sua misericordia, dopo il corso di questa travagliosa vita. E perchè questa cerimonia suol farsi nell'occasione del mettersi Ceppo, come fu tocco da principio, si avertisce che il metter Ceppo e abbrugiarsi quel legno o zocco, come diciamo, più grosso e grande del solito, significa che Cristo volle nascere in terra per distruggere gli Idoli e superstizioni de' Gentili, illuminando e purgando i petti degli uomini con la verità del suo Santissimo Natale.
Suol darsi la Mancia in queste Santissime Feste di Natale in memoria della gran liberalità del N. Sig. Dio, il quale diede sè stesso a tutto il mondo, e in memoria di quella gran Mancia della Pace, che dagli Angeli nella Natività di esso fu data ed annunciata in terra a tutti gli uomini e per caparra ancora del preziosissimo sangue ch'egli era por cominciare a spargere nel giorno della Sua Santissima Circoncisione, il quale dovea poi versare affatto nella sua Passione sul duro legno della Croce. »
Avverto solamente che il carbone del ginepro bruciato a Natale, che serba la sua virtù magica per un anno, risponde perfettamente al carbone del ceppo natalizio provenzale al quale viene attribuita una medesima virtù, e rammento ancora una volta che l'agrifoglio natalizio inglese ha il medesimo significato del ginepro.
Che il ceppo natalizio italiano e francese tenga poi il posto dell'intiero albero natalizio degli usi nordici, lo si può argomentare dal trovare l'uso della Valdichiana di picchiare sul ceppo per augurio di fecondità, applicarsi in Germania agli alberi viventi, i quali nella notte di Natale vengono colpiti, affinchè nel nuovo anno che incomincia col Natale possano riuscire fruttiferi.
Nella Svizzera si crede che la notte di Natale tutti gli alberi si mettano in flore, e nella Svezia, secondo il viaggio di Arndt, che chi va dopo la mezzanotte di Natale ignudo ed in silenzio nella selva, al mattino discoprirà sotto la neve le future biade verdi ed alte nella loro piena vegetazione.
Abbiamo qui, evidentemente, nell'albero di Natale, un albero d'abbondanza, che ritroviamo in quell'albero di una novellina russa che fa parte della raccolta dell'Erlenwein, cui spaccando il figlio del mugnaio ne fa spicciare danaro.
Il ceppo di Natale che si percuote per averne ricchezze, la ceppaia sotto la quale in alcune delle nostre novelline popolari si vanno a cercar tesori, ricordano, come l'albero natalizio, il Kalpadruma o Kalpavriksha e acvatta degli Indiani, l'albero antropogonico del Paradiso terrestreasotto il quale Adamo divien generatore, l'albero paradisiaco Haoma dei Persiani, l'Yggdrasill degli Scandinavi, l'Irminsul dei Sassoni e tutta la numerosa serie degli alberi cosmogonici ed antropogonici dei quali è piena tutta la tradizione indo-europea.
Ma noi non ricordiamo qui tanto l'albero di Natale, come albero d'abbondanza e di ricchezza, quanto come albero che simboleggia la nascita del fanciullo.
L'albero, il vegetante, è il più vivace rappresentante della vita umana. Nell'uomo si vide un albero rovesciato, e nell'albero un uomo capovolto. Negli scrittori sacri non meno che nei profani si trovano frequenti similitudini tra l'uomo e l'albero. La lingua nostra ritiene, parlando dell'uomo, parecchie immagini tolte dall'osservazione della vita vegetale.
Di un fanciullo che vien bene si dice ch'egli è ben piantato, ch'è vegeti, che fiorisce, che è un fiore; ch'egli è allegro come un cipollino, dicono in Piemonte; il nostro stemma proviene dalla voce tedesca stamm, che significa tronco; sopra lo stemma mettiamo le nostre impronte, e collochiamo poi lo stemma come corona in cima all'albero genealogico, quando ci vantiamo di discendere da una stirpe, da uno stipite, da un ceppo, da un lignaggio illustre.
L'umana probità discende rade volte per li rami dell'albero genealogico; poiché nelle famiglie vi è chi degenerando traligna, quando nel figlio non allignano le virtù avite o paterne; ma chi non è virtuoso non può poi neppure cogliere il frutto delle sue virtù. In Russia, in parecchi luoghi della Germania, in Svizzera, in alcune parti dell'alta Italia e della Francia (fin dal tempo di Virgilio mantovano, pel nascimento del quale i parenti piantarono un pioppo che superò tutti gli altri in altezza - L'Hooker, citato dal dottor Ploss, rilevò un uso simile fra i Maori della Nuova Zelanda, che lo hanno possibilmente ricevuto, per tradizione, dall'India), quando nasce un fanciullo, usa piantare innanzi alla casa, o nel giardino un albero che si considera come simbolico della vita del neonato fanciullo.
Nel settimo anno della mia vita, trovandomi a Chieri, seminai in un mio giardinetto una castagna d'India, che crebbe rapidamente in un mirabile ippocastano, il quale io considero volentieri come il mio albero natalizio , simbolico della mia vita di mezzo indianista.
E quando nacque mio figlio, Alessandro, piantai io stesso un castagno che ora cresce felicemente con esso.
In numerose novelline popolari si fa menzione d'alberi nati o piantati il giorno stesso in cui nacquero giovani eroi; quando l'albero si appassisce o si secca o sanguina, è segno che il giovine eroe vuol morire.
L'albero personifica l'uomo; il serpente avviluppato all'albero simboleggia il fallo generatore dell'uomo; l'albero contiene in sè il fuoco e l'acqua che devono insieme fecondar l'animale.
Il fuoco e l'acqua come elementi generativi, secondo la tradizione indiana stupendamente illustrata dal professor Kuhn, sono discesi dal cielo in forma di fulmine e di pioggia.
Il fulmine è paragonato ad un uccello, un falco (cyena), o una specie d' avoltoio; Garuda (come l'aquila che porta Ganimede il quale versa l'ambrosia agli Dei dell'Olimpo ellenico) porta il soma, l'ambrosia degli Dei vedici, e penetra entro un albero, dapprima celeste, una nuvola, riempiendo il cielo di fuoco, poi sopra gli alberi della terra, dai quali gli uomini dell'età vedica, fregando legno contro legno, il legno maschio contro le due pareli della vulva, contro i due legni femmina generano il fuoco terrestre.
Il legno maschio era un pramantha, ossia il bastone col quale producevasi il fuoco ed il burro era il fàllo generatore.
Dal vedico pramantha che produce il fuoco, dal pramantha che genera la vita, si svolse il mito di Prometeo, rapitore del fuoco e progenitore di uomini.
Al fulmine-uccello, portatore dell'ambrosia vitale, corrisponde il pico marzio, l'uccello che, secondo la tradizione latina, nutrì Romolo e Remo, i progenitori della stirpe romana, e si personificò nel celebre e fatidico ficus ruminalis.
Niente dunque di più naturale che la credenza fanciullesca, comune a quasi tutta l'Italia superiore e al Tirolo, d'esser nati sotto il ceppo di un frassino o di una rovere; ai fanciulli francesi, che si chiamano pure petits choux, si fa credere che furono levati di sotto un cavolo; nel contado fiorentino si chiamano macchiaioli i figli di nessuno, i fanciulli illegittimi, come quelli che si suppongono raccolti in una macchia; il vocabolo macchia può tuttavia avere in Toscana lo stesso senso che si dà in sanscrito alla voce kshetra, nel composto kshetragia con cui si denomina il bastardo.
Trovandosi la credenza degli uomini nati dagli alberi particolarmente diffusa nell'alta Italia sarebbe forse il caso di supporre che essa provenga dalla Germania; ma rimangono parecchie testimonianze di autori greci e latini, i quali ci mostrano l'antichità di questa tradizione sopra il suolo italiano.
Presso Esiodo, il padre Zeus crea gli uomini dai frassini; presso Apollodoro, il primo uomo Foroneo vien pure creato da un frassino; presso l'ottavo dell'Eneide, Virgilio ci parla di aborigeni nati dai tronchi e dalla dura rovere.
Giovenale, infine, nella sesta delle satire, afferma pure che i primi uomini non ebbero umani parenti, ma nacquero o da un albero o dal fango (rupto rotore nati, compositive luto, niillos liabuere parenles).
Nella sentenza di Giovenale, l'albero antropogonico è un albero primigenio.
II primo uomo, non avendo necessariamente avuto padre umano (se no non sarebbe egli mai stato primo), nacque da un primo antico albero, il quale si confonde agévolmente con l'albero cosmogonico, da cui, secondo il Rigveda, furono creati il cielo e la terra, e che, sotto il nome di Haoma, fu ad un tempo uomo ed albero nella tradizione zendica, come nell'Edda la prima generazione degli uomini è attribuita ai figli di Boerr i quali, in riva al mare, trovarono due alberi e ne fecero due creature umane.
Gli alberi che si piantano pure per le nozze in Germania, il ramoscello o bastone fiorito del bazvalan brettone, il ramo d'olivo, il maio, rami di betulla che si piantano in Russia innanzi alle case per la Pentecoste, il ramo di salice ornato di dolci, sotto il quale si raccolgono i fanciulli l'8 febbraio, con cui s' apre il nuovo anno giapponese, per avere fortuna e prosperare, sono tutti simboli insieme della vita e però del Natale che alla vita dà festoso principio.
Milano anno 1878 - A. DE GUBERNATIS
(in ortografia originale)