la Morte
Tra le cerimonie solenni, dopo la nascita ed il matrimonio, venivano quelle della morte; e quindi al sorriso ed alle liete speranze dell'aurora della vita; ai caldi baci ed agli amorosi amplessi dell'ora, in cui due giovani cuori segnavano col malrimonio il colmo delle gioie e dei desiri, conviene che io aggiungendo le tristezze del tramonto, ricordi e descriva le commoventi e pietose costumanze della morte nella loro semplicità e schiettezza, perchè se un tempo si aveva minor artefizio di pompa funeraria, più sincero e duraturo n'era il dolore e la memoria.
Pensiero dell'ammalato e della famiglia era il chiamare, prima del medico, il confessore, fidando più che negli uomini, nel sommo Dio; e quindi vero conforto era comunicarsi, o ricevere con sincera credenza e divozione il Viatico, quasi forza e cibo divino per accingersi al passaggio dalla vita terrestre allo stellato cielo.
ll Viatico si portava con solennità a suono di campanello e con accompagnamento di chierici e sacerdoti con lampioncini, con ceri accesi e con l' ombrello, sicchè a quel suono ed a quella vista ognuno si fermava, scoprendosi o inginocchiandosi divoto e dopo per lo più accompagnava il Santissimo, mentre i preti cantavano per la via versetti di salmi e di preghiere.
Nel tempo stesso la gente s'interessava di sapere chi fosse quell'infermo, e le notizie di sua malattia, in guisa che allora eziandio la sacra cerimonia del Viatico serviva per la cronica quotidiana della parrocchia o di tutta la città, non essendovi l'usanza e la speculazione di gazzette e di giornali.
Quindi dicevasi per costume e per credenza che bisognava prima aggiustà (rendere giuste) le cose dell'anima, cioè affidare la propria salute al medico celeste, e poi ricorrere alla scienza ed alle ricette dell'uomo; quasi predominando nella coscienza popolare il pensiero ed il sospetto che ben poco valgano le bobbe (bibite, medele) di farmacia, quando l'organismo o la natura non risolve alcun malanno.
Facendosi più grave l'infermità, si chiedeva l'estrema unzione, che si portava senza alcun suono o canto, ma con cerimonia quasi segreta e dolorosa, tanto che la gente nel vedere passare il prete per tale funzione, soleva dire: mo va a dà lu passaport' a quaccaduno, (ora va a dare il passaporto a qualcuno per l'altro mondo ).
E dicevasi pure l'ann strimà (l'hanno stremato); o: gn'hann' ont li zappili, (gli hanno unto i piedi), per significare: è bello e spacciato; non v'ha più speranza!
Alle quali frasi di un certo sensetto cinico se ne aggiungeva qualche altra di più divota e pietosa rassegnazione, come questa: Stà mbracc' a Dio; — sta quann lu Signore si lu chiama (sta in braccia a Dio) — sta quando il Signore se lo chiama.
Dopo si chiamava l'assistenza dei sacerdoti, la quale spesso durava parecchi giorni e parecchie notti, secondo il caso; e si gridava, si faceva strepiti, quando non era assidua, o avesse dovuto mancare.
Quindi presso il letto dell'infermo, o dell'agonizzante se ne stava sempre seduto un prete a dire preghiere e litanie, ed a tastare di tanto in tanto il polso di lui, per vedere che tempo vi fosse per la partenza dolorosa, e recitare, come se si togliesse da grave fastidio, il Proficiscere anima Christiana de hoc mundio, a norma del rituale della Chiesa.
Mancomale che allora di preti ve n'era una dovizia, e l'assistenza si avvicendava, e costituiva un servizio speciale per i più giovani, prima di essere partecipanti o capitolari di una Chiesa.
Se l'infermo era un uomo di campagna, e l'agonia si prolungava di troppo, ecco che si affacciava alla mente delle femminelle il pregiudizio, che il morente avesse rubato in sua vita qualche vomero di aratro, facendosi solo per tale fallo il rantolo così stentato; perciò subito di nascosto gli si costruiva un vomeretto di scroppi (legnuzzi o stecchetti), e si metteva sotto i cuscini, affinchè diminuisse il rantolo e si accorciasse l'agonia.
In tali credenze vi ha la fattura della sapienza antica, e non vi ha dubbio che esse comprendevano uno scopo ed un'efficacia utilissima e morale, perchè si ebbe certamente pensiero d'infondere nella coscienza della gente agricola un sacro e pauroso aborrimento contro il furto di qualsiasi cosa campestre, e sopratutto degli strumenti di lavoro; e così rendere anche sicura e rispettata la proprietà della campagna, elevando il sentimento dell'onestà finanche con le minacce di una penosa e prolungata agonia.
I Romani con saviezza resero sacra ed inviolabile la pietra di confine, creando il Dio termine, come Mosè ne
aveva fatto un precetto del Decalogo; e quindi opino che forse da credenze remotissime venne l'origine del detto pregiudizio.
A chi poi ne volesse trarre pretesto di disprezzo ad ingiuria di popolo, direi: meglio i pregiudizii di gente onesta con le mani incallite, che i furti e le truffe di gente inguantata, nastrata, e creduta civile!
Appena il morente cacciava l'ultimo respiro, ed il prete, finite le orazioni di assistenza, ne dava notizia alla raccolta famiglia, con la formola del salute a voi; tosto i parenti si gettavano sul caldo cadavere a piangere, a gridare, a scipparsi (tirarsi) i capelli, a battersi con le mani sulla faccia e sulla testa, tanto che col pianto e con le grida si assordava il vicinato che subito per curiosità e per dolore accorreva, si affollava in casa del morto sino in bocca all'uscio, e piangeva insieme alla famiglia e cercava consolarla con atti e con affettuose parole.
Frattanto le persone, o donne più anziane e le comari più adusale a tali sventure, si affrettavano a vestire dell'abito migliore il morto, prima che si raffreddasse e si stecchisse; e gli chiudevano gli occhi, gli attaccavano intorno al viso e per sotto il mento una zaaredda nera (zagarella, fettuccia, nastro), affinchè il morto non restasse con la bocca aperta e gli occhi vitrei e spalancati.
Poi gli accomoda vano i capelli, e talvolta gli faceano anche radere la barba, ed unendogli le mani sul petto legate con fottuccia nera, gli mettevano tra le dita la corona o rosario di legno nero, solita ad usarsi per la cerimonia dei morti.
Alle volte gli si metteva un piccolo crocifisso tra le mani; e se giovinetta, un candido fiore di mesta poesia, quasi si fosse sposata con la morte!
Indi lo ponevano disteso su di una buffetta (tavolino) nuda, oppure adornata alla meglio di coperta o di semplice lenzuolo, nel mezzo della casa, con la testa adagiata su cuscini e coi piedi rivolti verso l'uscio, quasi in segno di partenza, tra due o quattro 'intorce (ceri, candele), i cui resti spettavano alla parrocchia, quando di là si toglieva il cadavere per portarlo nella chiesa.
Intorno stavano a piangere le donne di famiglia, parenti, comari e vicine, vestite di lutto, le quali si raccoglievano a poco a poco e si affollavano fino all'ora dell'accompagnamento funebre.
Nell'entrare, si facevano innanzi per lo più scoppiando in pianti e grida, ai quali rispondevano con maggiore scatto di dolore i pianti e le grida delle persone di famiglia, che di tanto in tanto si alzavano e si gettavano sul morto a baciarlo ed abbracciarlo con espressioni di strazio e di tenerezza, come se a furia di baci, di lagrime e di fiato volessero richiamare al caldo della vita quel volto affossato, freddo ed impetrito.
Gli uomini se ne stavano raccolti in un altro canto, tutti accappottati, ancorchè scottasse il sole di luglio; e piangevano anch'essi; ma il loro pianto cercavano di soffocarlo con tenere chiuse e strette le labbra, e comprimere nel guttere e nei polmoni financo il respiro.
Erano però sforzi vani, perchè alle contrazioni nervose di tanto in tanto scoppiavano ruppi (gruppi) di tosse forte e schiattosa.
E quindi di qua e di là sentivasi un uh — uh rimbombante, come esplosione di mina cavernosa, che faceva da nota grave al pianto ed alle grida delle donne e delle fanciulle.
Era davvero scena straziante, ed accresceva la commozione ed il dolore, perchè non era pianto di prediche; ma prorompeva schietto senza riguardi di convenienze personali e di moda.
Se qualche letterato fosse stato lì a sentire quelle espressioni, rozze forse per forma dialettale, ma tenere di concetto, calde, affettuose, enfatiche e smaglianti di triste poesia e di bellezza, avrebbe studiato veramente la rettorica e le figure.
Sopratutto quando moriva un padre di famiglia, e una mamma che lasciava figli ancora piccoli e bisognosi di aiuto e di situazione sociale, quelle frasi di dolore erano più affettuose, strazianti ed espressive; ed a sentirle, toccavano ed intenerivano il cuore, o come si diceva, facevano piangere pure le pietre della via, ovvero scappavano (spaccavano) li priere di la via.
Voglio ricordarne alcune nella loro forma più schietta e nel loro colorito originale, per darne un'idea al lettore.
N' hai dascià, mamma mia, senza lu jare tovo! .....Ecum'amma fà senza d'uocch' di la mamma? .... E chi penserà alli figli tovi, ch'ai dascià come tant puliscine 'mmezz alla via, orfan' e abbandonare? .... Ah, mamma crurele, mamma traditora! .... (N'hai lasciati, mamma mia, senza il fiato tuo! E come faremo senza l'occhio della mamma? E chi penserà ai figli tuoi, che hai lasciati come tanti pulcini in mezzo alla via orfani ed abbandonali ? Ah, mamma crudele, mamma traditora....)!
E via, via su questo tono, e con imagini sempre più caratteristiche e toccanti!
Altrettanto espressive, affettuose e delicate erano le frasi con le quali la madre piangeva il figlio o la figlia morta; e quelle della moglie per la morte del marito, quando la lasciava povera e desolata, ed i figli correvano il rischio di andare pi sotta li trapp, (per sotto le porte) in cerca di pane e di soccorso.
Quindi il padre talvolta diceva che la morte del figlio lo lasciava senza il bastone della vecchiaia, ...; la moglie per la morte del marito, che egli era il celmo della casa (trave di sostegno del tetto)....; e la madre per la morte di qualche fanciulla: num mi dii niente chiù, figlia mia bella, cu sa bocca tova chiena di rrose! . . . (Non mi dici niente più, figlia mia bella, con questa tua bocca, piena di rose) !
E questo pianto, questo dolore, questo lutto acquistava maggiore estensione, e commoveva più vivamente tutti fin dentro l'anima, quando la morte avveniva quasi subitanea, acerba ed inaspettata; e quindi si sentiva dire di quà e di là, all'annunzio di morte: Chi Ti zio?... Chi Caia?... Oh, che peccato!... Che disgrazia!.... E come è morto?... E quando ?... Ma tu dici davvero?... E quindi povero all'uno! e povera all'altra! ma cresceva sempre il compianto e la pietà per il marito che perdeva la moglie e restava con molti figli piccoli; o per la moglie che rimaneva priva del padre dei suoi bambini; e più di tutti per i poveri orfanelli che restavano senza l'uno o l'altro dei genitori.
Con quel pianto e con quel lutto si faceva più o meno l'elogio delle virtù del defunto, e se ne traeva un'idea della pubblica stima e del pubblico compianto, non essendo allora venuta in usanza e tanto indistintamente diffusa la moda e la manìa degli sproloqui funebri e dei cartelloni, che ora si fanno - anche ai ladri, ai disonesti ed ai bottegai, purchè abbiano quattrini ed importanza di equivoca clientela, di bancaria alleanza, o di altro non dissimile diploma, e nomea di fortuna.
Intanto i parenti più larghi, gli amici ed i compari si davano pensiero e premura del bisognevole per le onoranze del mortoro, facendo suonare le campane, invitando capitoli e fratellanze , e provvedendo ad ogni altra cosa, secondo l'agiatezza della famiglia.
Dal suono dello campane conoscevasi, anche da quelli che si fossero trovati in campagna, l'età, la condizione, lo stato economico e sociale, e la stima del trapassato, perchè l'allegro ed armonioso suono delle squille indicava che qualche bambinello o fanciulletto se n'era volato o salito in paradiso a godere dei baci e dei sorrisi degli angioli nel cielo; il suono della mezzana a distesa significava che il morto era poveretto; ed il suono a lungo ed a distesa di una, di due, di tre, o di tutte le chiese e cappelle dinotava la gradazione d'importanza del mortoro.
Anche la durata dello scampanatorio (scampanìo) e l'ora del tempo erano segno della diversa specie del funerale; imperocchè pochi rintocchi indicavano misero stato e poca paga; più lungo e ripetuto scampanìo significava maggiore agiatezza e larga parentela di famiglia; infine lo scampanatorio di bon'ora, e da non finire mai, dinotava la morte di qualche prete, facendosi allora precedere in qualunque ora di notte i lenti e distaccati rintocchi dell'agonia nella propria parrocchia.
E si badava assai a questa differenza e durata di suono!
Quindi il popolino, secondo il diverso suono delle campane, era solito dire: É poveromo!... è nu piezz' ross' (un pezzo grosso), sicchè stamane vann' bone li preveri! (vanno bene i preti)... ovvero quest'altra: stummati gnè carna int la pignata di li preveri! (stamattina ci è carne nella pignata dei preti).
E l'altro ritornello per indicare i patti e la maggiore solennità di un mortoro: trenta carrini so poch'; quatt ducat', arrimiriam'; sei ducat' lu purtamm' (trenta carlini sono pochi; quattro ducati, rimediamo; sei ducati, lo portiamo), ritornello che si soleva ripetere con tono di canzonatura da monelli e da fanulloni quante volte passava un mortoro per la strada.
Giunta l'ora, in cui si doveva portare il cadavere in chiesa, si riuniva innanzi la casa del morto il corteo delle fratellanze, o congreghe, dei monaci e del clero, ed il seguito più o meno numeroso della parentela e degli amici del morto.
S'intonava da chi ne aveva il diritto il « Subvenite, Sancti Dei » che si completava col canto, a voce alta, di tutto il clero secolare e regolare.
Indi si metteva il cadavere nel tavuto o bara scoperta che forse un tempo poteva essere anche una nuda e rozza tavola, portato da quattro persone, becchini, senza abito decente e speciale, anzi vestite più o meno miseramente e da straccioni; e tra i pianti che si ripigliavano con maggior lena di fiato e di dolore, e la salmodia del clero sfilava la funebre processione verso la chiesa della propria parrocchia, o verso la chiesa di S. Francesco, facendosi il giro e allungando il cammino, secondo la dignità del defunto e l'importanza economica e sociale della famiglia.
Il prete andava sempre alla sua chiesa.
La chiesa di S. Francesco, prima del 1806, cioè prima della soppressione fatta dal governo francese, apparteneva ai Conventuali, frati ricchissimi, e spesso serviva per i mortori più solenni di tutte e tre le parrocchie della città. E quindi spesso avvenivano contrasti fra i capitoli per il rispetto dei limiti delle parrocchie; e vi sono memorie scritte, dalle quali si rilevano abusi, pretensioni, resistenze, minacce per difendere e sostenere il proprio diritto parrocchiale, tanto è stata sempre predominante nell'indole umana, sotto qualsiasi veste, l'idea dell'interesse!
Qualche volta i funerali si facevano a Santa Maria, ma per la sola sepoltura.
Descrivo un corteo funebre dei passati tempi, perchè se ne abbia un'idea, o ricordo, dopo l'abolizione degli ordini religiosi e la soppressione delle Chiese ricettizie della Città, avvenute dopo il 1860.
É inutile potrebbe esclamare qualcuno, pensando che nulla si sia mutato dell'antico; ma non è così per chi conosce il confronto dei tempi, perchè i nostri nonni, a dirne una, ne' mortori vedevano gran numero di monaci e di preti, ma non avevano lusso di società, di corone e di bandiere.
Precedevano in ordine le congreghe , o fratellanze di S. Antonio Abate, Santa Lucia, S. Rocco, San Nicola, S. Giuseppe e quella del Monte dei Morti, o di S. Francesco, come si disse poi, senza tener conto della congregazione di S. Francesco di Paola, vissuta pochi anni.
Per lo più quelli che si vestivano da fratelli, erano ragazzi, poveri, vecchi sciancar' o zoppi e mezzo ciechi che camminavano a stento, ed appoggiandosi alcuni al bastone; e si davano loro due o tre grani per ciascuno (poco meno, o poco più di una decina di centesimi), tanto da comprare un tozzo di pane per quel giorno.
Portavano abito , o veste bianca, che ne aveva talvolta la pretensione del colore, con mozzette celesti, verdi, rosse, azzurre, o nere, come quelle di S. Francesco, sostituite all'abito interamente nero di un tempo, a somiglianza dei fratelli della Misericordia delle città toscane; abito che più tardi si mettevano solo quando andavano gridando lugubremente per le Sante Messe, per le vie della Città, nel giorno in cui qualche disgraziato, o condannato a morte, veniva tratto alla forca o al taglione su Monte reale, a poca distanza dalla Città.
Dopo venivano i Monaci Cappuccini, i Riformati, o Minori Osservanti, e un tempo anche i Conventuali, con le rispettive croci, dalle quali pendeva un drappo arabescato di seta, di forma rettangolare, a guisa di gonfalone.
Quindi seguivano i tre Capitoli della Trinità, di S. Michele e di S. Gerardo, più di un centinaio di preti; sicchè era una seguela di croci, ed una fila lunghissima di abiti, di cotte, di insegne pretili rosse, e di centinaia di persone.
Dopo i preti veniva il tavuto, e dentro il morto.
Secondo l'età, l'abbigliamento e la malattia del defunto si riceveva una diversa impressione, ora presentandosi allo sguardo il cadavere di un ricco, che faceva l'ultima mostra di lusso e del migliore vestito; ed ora la figura stecchita, ossuta, tetra di un vecchio misero e cencioso.
Talvolta era la figura di una vecchia sdentata ed ingiallita; e tal'altra la commovente immagine di una giovinetta, morta nel sorriso dei primi sogni di amore, la quale vestita da sposina ed incoronata di fiori pareva che andasse, a dispetto della morte, alla nuziale cerimonia del più poetico giorno della vita.
E l'animo si commoveva per una ragione o per l'altra, al quadro doloroso di quella ultima comparsa di differenza sociale che si presentava alla vista dello spettatore anche nella livellatrice funzione della morte!
Dietro il tavuto venivano in primo posto i parenti, e poi il resto dell' accompagnamento (corteo) degli uomini, portanti tutti il cappotto in segno di lutto.
Dopo gli uomini veniva la lunga schiera di li femmin' (delle femmine) col sottaniello rovesciato sulla testa da lasciare vedere appena una parte della faccia, quasi seguissero il costume dell'oriente, o fossero monache di clausura.
Un tempo, come rito di lutto, portavano in testa il faccioletto bianco coperto da larga e lunga striscia di velo nero; ma più tardi, disusatosi il velo per voglia di moda e di distinzione, le donne del medio ceto, o artigiane (mogli di artieri) costumarono di portare il facciolettone di raso o di lana nera, senza più rovesciarsi il sottaniello sulla testa.
Anche fra esse il posto di onore si dava alle parenti del morto, e se vi erano giovinette o fanciulle orfanello, venivano condotte in mezzo con la mano, portando i capelli scarmigliati (sciolti) da cadere sulle spalle, e coperte da velo nero sulla faccia.
E dai parenti si piangeva e si gridava lungo la via, e spesso quel pianto e quelle grida straziavano l'animo e com movevano a lagrime anche quelli che si affacciavano agli usci ed alle finestre per vedere il morto e l'accompagnamento funebre.
Giunti in chiesa, il tavuto si situava sul tumulo, intorno a cui per tre lati, si mettevano rielle, o strisce di legno, con candele infisse su punte di chiodi, ed ai quattro angoli candelieri con torcie, o ceri più grossi.
Finita la funzione, i residui delle candele spettavano ai preti ed ai monaci, e venivano divisi secondo i patti di una antica convenzione.
Dalla quantità delle candele s'indicava anche la ricchezza di un funerale; quindi si diceva: un funerale di cento o più lumi, ovvero di tante libre di cera.
Nei tempi più recenti, in vece delle rielle, si cominciò ad usare la castellana con maggior lusso ed apparato di candele, da formare così d'attorno alla bara un castello di lumi per disegno.
Sul lato anteriore del tumulo, di fronte all'altare maggiore, si accumulavano (sedute), come desolate, la madre, la moglie, le sorelle o le figlie del defunto, trattenendo a forza il pianto per non disturbare il canto e le cerimonie religiose.
Nel coro variava il canto secondo l'importanza del mortoro, mentre sull'organo facevano a gara i cantori per superarsi a forza di polmoni, e distinguersi con voci gravi o alte negli accordi nasali ed allungati.
Intanto i campanelli ad ogni tratto annunziavano l'uscita delle messe, o l'elevazione dell'Ostia nei diversi altari.
Questa distinzione di lusso e di canto funebre si notava fin da quando il cadavere dalla casa veniva portato alla volta della chiesa, perchè se fosse stata persona di riguardo, o avesse avuto qualche fratello, zio, o figlio prete in una delle tre chiese, invece di dirsi il De profundis a voce bassa, si cantava solennemente sino alla chiesa, e questo solevasi fare specialmente dai Capitoli di S. Michele e della SS. Trinità.
Nel mortoro poi di un prete si cantava sempre, e secondo la dignità del defunto si allungava il giro della processione sino a compierlo intero per tutte e tre le parrocchie, quasi dall'un estremo all'altro della città.
Anche oggi conservasi tale usanza.
Allorquando i morti si seppellivano nel cimitero delle chiese, finita la funzione, il lutto o accompagnamento funebre subito si scioglieva per recarsi in casa del morto a fare le condoglianze con la famiglia, fermandosi ivi per qualche tempo mesti e silenziosi; per la qual cosa la gente si affollava nell'entrare e nell'uscire, sicchè di visite la casa era sempre piena per quel giorno e per il giorno appresso.
Durante la visita, si serbava, almeno nel primo giorno di lutto, silenzio completo, interrotto soltanto da forti urti di tosse, da frequenti sospironi e da fugaci scoppi di pianto; ovvero si cominciava un chiacchierìo, sopratutto tra le donne, sulla sventura o su qualsiasi altro soggetto, da non finirla mai, distraendo così alquanto, il dolore, ed accoppiando però alla distrazione la noia ed il fastidio.
Intanto nella chiesa si alzava la pietra della sepoltura, e si calava, o si gettava il cadavere in quell'indistinto e putrido carname.
Per la legge del 1817 costruitosi il camposanto, ed apertosi nel 1837 per la triste circostanza del colera/dopo le funzioni della chiesa si portava il morto a seppellire laggiù, ed ognuno sa che il novello sito della requie e del riposo dista, in linea retta, poche centinaia di metri dalla città, verso levante, in bassa postura dietro un piccolo colle, ove la vista non vi giunge, ma ove la borea ed il ponente soffiano a purificarne l'aria malsana, portandola in luoghi più aperti e più lontani.
Per trasportarsi quindi il cadavere dalla chiesa al camposanto, la processione funebre ripigliava l'ordine di già descritto, attraversando la via Pretoria sino presso S. Luca, donde il solo clero, o capitoli, e pochi del lutto se ne tornavano; ma le fratellanze, i monaci ed il resto del corteo procedevano, per la via delle Carceri, sino alla
porta del camposanto.
La via nuova di S. Carlo fu fatta dopo.
Ivi giunti, i Riformati si ritiravano, deviando a S. Rocco, per una stradicciuola al loro monastero di Santa Maria; i Cappuccini tiravano diritti per la via che menava al loro convento di Sant'Antonio la Macchia; e le fratellanze si spogliavano della mozzetta e del camice, e con quel fardelletto sotto il braccio, straccioni e zoppicanti ritornavano in città.
La maggior parte del lutto, sopratutto le donne, accompagnavano il cadavere sino alla fossa, e non ne partivano, se non avessero impresso gli ultimi baci, e bagnato con le ultime e calde lagrime di dolore, di requie e di addio il volto della persona cara, adagiandola ed accomodandola nella cassa di quattro rozze tavole; e non avessero visto sparire sotto le zolle di terra chi per schietto sentimento di fede speravano un giorno di rivedere in cielo.
Ed allora di tombe e di lapidi quasi non v'era usanza, nè la fossa si abbelliva di fiori e di corone; sola una croce di legno si metteva a segnare il numero dei morti.
Eppure quella croce modesta sollevava, più che i marmi bugiardi, il cuore a speranza di vita futura, e lo confortava a lenire il dolore, ricordando la memoria e le pròmesse del Cristo, che distrusse la morte col morire per l'uomo, e resurgendo sublimò il premio della redenzione e della vita sulle rovine di ogni superbia e di ogni vanità terrena!
Per disavezzarsi dal seppellire i morti in chiesa, la gente mostrò una grande ripugnanza, perocchè si stimava (vi è un documento nel Municipio, che l'attesta) che ragione e religione rendessero, secondo il genio del cristianesimo più sacra e pietosa la requie dei morti nella casa di Dio e della preghiera, ancorchè ne soffrissero l'igiene e la pubblica salute.
Tanto è difficile togliere in breve tempo costumanze antiche!
O a fa nausea e ribrezzo anche il ricordo di sentire, come dalle sepolture delle chiese, non ostante le più vigili cure, esalava un puzzo che faceva contrasto con gl'incensi offerti al Signore.
E doveva essere una scena assai più stomachevole e ributtante, allorchè di tempo in tempo gli sfessamorti, o uomini addetti a vuotare e pulire sepolture, solevano con le scuri rompere i putridi ed ammassati scheletri della ricolma fossa, e poi trasportarne le ossa nel cimitero, o interrarle in altro luogo.
Solo a lato della chiesa di S. Michele vi era lu Cimmitierio (cimitero), sulla cui terrazza si elevò, negli anni poteriori al 1837, una navata di forma sconcia e bruttissima, non ostante che vi sieno altari e nicchie di Santi.
I sottani, o volte sepolcrali, sono ora adibiti ad uso di abitazioni e di magazzini!
A completare la narrazione dell'antica costumanza del lutto, bisogna ricordare che non si toccava cibo, nè si chiudeva occhio, finchè il morto era lì nel mezzo della casa, ed in tutto il giorno del mortorio.
Ma la sera ed il giorno appresso, e talvolta per una settimana, gli stessi parenti e compari a vicenda si davano premura di fare lu cuonsolo (il consolo), o pranzo alla famiglia del defunto, portando tutto il bisognevole per la tavola, dalla tovaglia, mensale, ai piatti.
La famiglia però serbava e portava il lutto per mesi ed anni, secondo il dolore e la domestica sventura; in guisa che eziandio nelle feste più solenni il desco era deserto e si vedeva spento il focolaio, nè in quella casa si sarebbe arrischiato di affacciarsi il sorriso o altro segno di letizia.
Anzi per la morte dei genitori alcuni solevano non cambiarsi la camicia per qualche tempo, e sarebbe stato discredito e vergogna non rispettare le scrupolose norme degli antichi.
Che barbara e sordida usanza! . . . dirà forse il lettore arricciando il naso, o per lo meno, assumendo il tono di assennato, la dirà una esagerazione di lutto.
Bisogna però pensare che nei popoli semplici e modesti la misura della civiltà e del senso morale sta appunto nel culto del dolore.
E per verità in quei tempi l'affetto e i vincoli di parentela si rafforzavano sopratutto nelle sventure di famiglia, la quale non era distratta dalle moderne seduzioni, nè oppressa e inaridita dal turbine di tante gravezze; la onde schietto prorompeva il dolore, e sincero e pietoso era il rispetto e la memoria per i cari defunti.
Oggi invece parmi che si faccia il contrario, e passato che sia il giorno del mortoro, pel quale vi è solo manìa di lusso di bara e di coltre ricamata a fogliami di oro, di corone funebri e di casse zincate o vellutate con fregi e cifre di ottone, tutto finisce, e presto si ripiglia l'allegro conforto della vita.
Anzi il lutto serve per distinzione e leggiadria di moda, tanto che giova a' giovanotti la striscia nera sul braccio sinistro, quasi stringesse cataplasma di vescicante, per meglio intenerire il cuore delle fanciulle; come qualche visino femminile si pregia di farsi ammirare nei passeggi con l'abito nero e il velo lungo sino al tallone, desiderosa di amorosi sguardi per conforto.
Se le antiche costumanze erano esagerate per durata di soverchio dolore, non è forse ridicola la moda di oggi, quando si va in cerca di condoglianze per mezzo di biglietti listati in nero e per mezzo di giornali, annunziando la morte di qualcuno.
Quante volte non ci esce spontanea dalle labbra una delle nostre frasi di non curanza alla paesana, allorchè ci arriva una partecipazione di morte su cartoncino di lusso con una filza di nomi e di titoli di parentela, a guisa di sciarada, invitandoci a piangere per persona lontana o poco conosciuta?
Oh, davvero io penso che valeva più la rozza e muta croce di legno sulla fossa di uomini onesti e laboriosi, bagnata da vive lagrime di dolore, o designata con caldi sospiri di ricordo; anzichè le moderne lustre, i bugiardi marmi, gli epitaffi e le orgogliose tombe di ruffian, baratti e simile lordura contro la morte che suo corso prende!...