La casa
Negli antichi tempi, e quasi fino al principio del secolo che muore, la casa in generale era da noi di rozza e povera struttura, sebbene la platea della città fin dalla più remota origine avesse avuto un certo concetto di regolarità e di armonia di linee nelle vie, nei vichi e nella divisione delle Parrocchie.
Ed invero chi avesse guardato a volo di uccello, come si dice, l'aspetto generale della città, avrebbe notato che meno i campanili, le chiese, i monasteri, il palazzo del conte e quelli più modesti di parecchie famiglie di proprietarii o possidenti, il resto del fabbricato era uno sminuzzamento di umili case e casette senza pregio di arte, le quali di solito non avevano lusso di prospetto, nè avevano tutte un piano superiore, comodo e distinto.
E per questo sminuzzamento avvenne che nelle successive trasformazioni si cercò di abbellire alla meglio il fabbricato, non secondo dettava l'architettura ed il bisogno della civiltà e del progresso, ma secondo le necessità e le disadatte circostanze di moltiplici interessi.
Le case poi dei contadini erano miserrime, basse, infelici da toccarsi il tetto con la mano, come se ne vedono ancora in certi vichi; e mal si riparavano dalla pioggia e dalla neve.
Certamente su di esse compendiavasi lunga e dolorosa storia di terremoti e di barbari invasori, difficoltà topografiche ed incostanza di clima, miserie feudali e bastardigia di governi ! . . .
Non avevano quindi le case in generale vera forma di civile prospetto, perchè in tempi antichi bastava la volontà del padrone e la mente di un fabbricatore qualsiasi a concepirne il disegno e la struttura per i comodi della famiglia.
La verità storica non può tacersi, nè esagerarsi in questo lavoro per vanterie bugiarde, tanto più che essa deve giovare al confronto dei tempi con questi ricordi, senza tema che la coscienza e la dignità di un popolo ne resti offesa, o vada in rovina.
Per lo più l'una casa era separata dall'altra per brevissimo spazio, detto vinella, per lo scolo delle acque piovane, che poi servì anche pel getto d'ogni lordura.
Molte avevano il tetto a due pendenze, o perciò la caratteristica prospettiva ad angolo, dando a pensare che fossero state edificale così per rigidezza di clima, o fossero trasformazione di primitivi pagliai, dopo la sventura di terremoti, o dopo le feroci devastazioni di barbari invasori.
Quasi tutte avevano sottani scavati dentro terra, per uso di can'tina, di legnaio, di stalla, od anche per abitazione della gente povera e contadina.
In questi sottani, talvolta tre o quattro metri dentro terra, la gente povera nel rigido inverno sentiva meno freddo, standosene attorno al fuoco di scroppi, cioè di sarmenti, cannucce e sterpi di siepi, tra densi strati di fumo nero ed amaro, che indeboliva l'ardore e le stesse fiamme del fuoco, e lasciavano appena vedere il poco di luce che veniva scialba e scarsissima dall'uscio, sembrando arrestarsi timida ed incerta sulla soglia della scala.
Quindi trabucchi, cioè aperture incavate nella via per dare accesso a questi sottani e poveri abituri; e scale sporgenti per salire al piano di quelle case, che si sollevavano di qualche metro sul livello della cuntana (vico), o della strada, poco rispettandosi in quei tempi di governi medioevali il diritto dell'università o del comune.
Vi era pericolo di spezzarsi la nuca del collo, se si fosse voluto passare per quei vichi in tempo di notte!
Vi erano poi casette basse sott'ermisci (sott'embrici), che non potendo essere diversamente illuminate, avevano nel mezzo del tetto nu duscirnale (lucernaio) o abbaino, da cui entrava l'aria e qualche fugace raggio di sole, servendo nel tempo stesso da cimminiera per l'uscita del fumo.
Di giorno rimaneva aperto, ancorchè cadesse la pioggia e infuriasse la tempesta; ma la sera si tirava su un rozzo coperchio per mezzo di un'asta, o bastone , di cui un' estremità vi era attaccata o infìssa.
La mattina con lo stesso caratteristico congegno si rimoveva, spingendolo sugli embrici.
Ben può imaginarsi come, mal combaciando il coperchio sugli orli del foro, vi entrasse anche di notte il freddo ed il vento.
Eppure i nostri vavoni (avoni, nonni) erano cosi affezionati alla loro città nativa, da non distaccarsene mai, tanto che solevano dire: Tutt lu monn' fosse paraviso , lu ricrij di l'ome e la suva casa ! . . . (tutto il mondo fosse paradiso, il ricreo, godimento, dell'uomo è la sua casa!)
Con questa sentenza di puro sangue potentino si voleva significare non solo la pace, la contentezza e le affettuose cure della propria famiglia; ma anche la casa materiale, in cui nascendo, ai vagiti di dolore si aveva i primi baci e le carezze della mamma a conforto della vita.
Oggi no, non pensano così: lasciano tutto, e fuggono per disperazione nelle Americhe!
Difatti quei buoni nonni godevano di validissima salute, sebbene non avessero idea delle moderne esigenze d'igiene, le comode ed eleganti stufe, i morbidi tappeti e il lusso di salotti!
Si facevano le loro provviste senza le torture del dazio consumo, e si mangiavano il loro tozzo di pane e la calda minestra, facendosela arrivare sino all'unghia del piede, in santa pace e con coscienza di animo onesto e tranquillo.
Spesso da quelle modeste casette, e da quei affumicati abituri, vedevansi affacciare certe vagnardedde, o giovinette, come freschi fiori di bellezza, che sembravano miracoli di genio e di provvidenza, e al solo vederle, mettevano la guerra in cuore ! . . .
Oggi certa gente vedendo questi avanzi di casette e di abituri antichi, si mostra assai schifiltosa e subito rimuove lo sguardo da tanta povertà con nausea e dileggio.
Noi però desideremmo che questi nostri fratelli, così teneri e gentili, si mostrassero meno avidi di spiarvi dentro, quando si tratta di fiscalismo e di balzelli.
La civiltà diventa barbarie, quando si vede anche l'umile casetta messa in vendita per multa di agenti e di esattori!
Tralascio di descrivere più minutamente le umili case dei contadini, ove si trovava sempre un po' di canz' (canto, luogo) per la codda (collo, sacco) di lu rane (del grano), o per la canna cammira (camera di canne intessita) di li ranirinii (grani d'India, granoni); per le patate, i legumi, li scropp' ed altri asciament' (agiamenti) della casa, e per l'immancabile maiale a provvista della famiglia, ancorché avesse dovuto tenersi d'accanto o a pie del letto insieme al ciuccio e ad una dovizia di galline.
Neppure credo utile descrivere la casa spaziosa, comoda e quasi signorile dei ricchi proprietarii.
Mi fermo solo a ritarre con colorito storico la vera fisonomia della casa dei massai e delle famiglie medie ed agiate, che in quel tempo rappresentavano la classe borghese industriosa e civile.
In queste case, come in quelle dei più ricchi proprietarii, la cucina era quasi sempre la stanza più larga, comoda, ariosa e meglio esposta al sole.
Nel sito migliore e più luminoso di essa si vedeva lo spazioso focolaio con grossi alari di ferro per sostegno dei ciùcculi (ceppi) e delle legne, e vicino al fuoco, pignattoni di rame, o di creta, in cui croccolavano (bollivano a scroscio) minestre di cavoli o di legumi, e talvolta un osso di prosciutto con altri pezzi di salami per lesso saporito.
Di sopra al focolaio sporgeva la larga cappa della cimminiera, o del cammino, affumicata e polverosa, da cui calava la carena (catena), a grossi anelli di ferro per appendervi caccavotti, cavirari, caviraroni e carencieddi (caldai, calderoni e caldarotti).
Dalle travi nere di fumo, che alle volte parevano incrostate di lucida vernice, e cariche di fuligini e di ragnatele vedevansi pendere pezzi di lardo, prosciutti, spallucce, vesciche di sugna, ventresche, salcicce, pezzenti, soppressate ed ogni altra specie di salame di due o tre maiali; e poi filari d'inserte di puparuli (inserte di peperoni), di cirasedde (ciraselle) forti , rosse e disseccate, ed anche 'nserte di cipolle grosse con flocchi di cigli (germogli), o di sponzillì , come si chiamano da noi.
Al focolaio si mettevano ad ardere bracciare di legne (quante se ne potevano portare tra le braccia), e quando si consumava l'una, senza pensiero di risparmio si sovrapponeva l'altra, servendo di alimento e di contorno a lu ciùccvulu (ceppo grossissimo) messo a capo del fuoco, che a consumarsi non bastavano giorni interi.
Alle legne spesso, per la fiammata, si accoppiavano fasci di sarmenti crepitanti, e quindi fumo, cigolìo di tizzi ancora verdi, e vampe, o fiamme, che s'innalzavano scherzevoli e serpeggianti intorno alla catena, formando un insieme molesto e ricreante di luce e di calore, mentre il maestoso ciucculo era lì, a capo del fuoco, sempre acceso e vivo per servire da fuoco sacro a quelle vampuglie, di breve durata e di facile consumo.
Spesso appesa alla catena stava la grossa caldaia, bollente e croccolante, intorno a cui si faceva larga corona di fiamme tremole e carezzevoli, e vicino la brascia (brace) pignatti grossi e qualche pignattino, pel cibo della genie di campagna e per quello delle persone di famiglia.
Attorno al focolaio se ne stavano le persone di casa.
Sopratulto nelle sere fredde e noiose d'inverno, si riunivano ricreandosi alle fiamme ed al calore del magnifico fuoco, a dire il rosario, e poi si discorreva sull'azienda domestica, sui lavori da farsi in campagna, oppure lietamente si novellava a diletto dei fanciulli, e si ricordavano fattarelli ed avvenimenti di tradizione antica per passare così, tra la pace e la gioia domestica, un'ora di riunione e di riposo.
Mi paro di vederli così raccolti, mentre di fuori fischiava rabbioso il vento, e per la cappa del camino cadevano scintillanti e cristalline le stellucce del nevischio.
Qualcuno fra essi faceva la cascaggine, e richinava il capo pel sonno e la stanchezza. Beati loro!
La cucina serviva pure per sala da pranzo della famiglia e delle persone di servizio, cioè serve, mulattieri e vignaiuoli; e dei bracciali, o lavoratori alla giornata, quando tornavano la sera da campagna.
Divertiva vedere una quindicina di questi bracciali, seduti attorno alla lunga tavola, o buffetta, senza tovaglia, o solo coperta da straccio di mappina.
Sembravano tanti apostoli del lavoro, per non dire servi della gleba, a capo scoperto, e tenendosi ognuno il cappello pizzuto a terra tra le gambe.
Mangiavano con le mani, con cucchiai di legno, oppure si servivano delle stesse lunghe e grosse fedde (fette) di pane per forcine, che si accorciavano ad ogni boccone che si dava.
Divoravano silenziosi quei piattoni di legumi o di minestra fumicante, savorosa e forte di cirasedda, di agli e di olio fritto.
A vista d'occhi sparivano quelle grosse panedde di pane nchiummoso e duro come macine di molino.
Il boccone veniva appena masticato dalle ferree ganasce, e subito giù pel largo cannarone.
Intanto non cessava dal girare il fìascone di sottapera o di vinello acido ed acquoso, perchè mentre l'uno bracciale con la testa inclinata all'indietro e con la bocca spalancata teneva il fiasco in alto con le braccia distese a fare la canaledda (bere a cannello, a zampillo, a getto) senza riguardo ad ugola ed a polmoni; l'altro si puliva il muso col dorso terroso della mano, aspettando il momento che il compagno gli passasse la fiasca per bere a sua volta a cannello o con le labbra.
Qualche volta non trovavano di loro gusto il cibo preparato, ed allora cominciava uno scambio di occhiate per intendersi, ed un borbottamento di frizzi di ironia a danno del padrone, il quale, poveretto, doveva rassegnarsi a sentire in pace quelle frasi di linguaggio a scatto, vere punture di finissima caricatura cainesca.
Diversa scena per chiaccherìo era, se fossero state femmine intorno al desco; e guai se tra vagnardedde (figliole) stavano vecchie sdentato e donne fatte, che divenivano bersaglio ai motti, alle risate ed a qualche scherzo di quella schiera di mente allegra e di cuore smanioso di brio e di amore, anche non avendo tra loro alcun calandriedd' da mettere a dileggio per simpatia, o per disdegno.
La cucina serviva pure come sala di ricevimento, perchè allora, come dicevasi, si badava chiù alla sostanza, e non si viveva di apparenze e di fallacie, gettando polvere negli occhi con l'inganno di soffici poltrone e di divani damascati.
E poi si stava tant' bell' a ricevere e conversare in cucina, seduti su scanni e su panchette, o su qualche ruvida seggia mezz' spagliara (sedia mezzo spagliata) attorno a crepitante e fiammeggiante fuoo (fuoco), bevendo allegramente l'orciuolo di vino fresco e zampillante, spillato lì per lì nella sottoposta cantina.
Ne si arricciava il muso e il naso per disgusto dell'acidulo sapore dei nostri deboli vinetti.
Di solito in queste cucine oltre lo stipo, il canterano, l'appen-rame (appendi rame) con tielle, casseruole, padelle, stoviglie e rozzi piatti di fattura paesana, vi era proprio vicino al focolaio il letto dei padroni di casa, affinchè di là, la mattina prestissimo, avessero potuto dare alle persone di servizio ed ai lavoratori gli ordini opportuni per le faccende campestri della giornata.
Il letto però era posto in arcuova (alcova) con tendine innanzi, oppure poggiava su un rettangolo di legno, sostenuto da quattro colonnino con piedi torniti, le quali si elevavano a circa tre metri di altezza, e sopra eravi una cornice scannellata e spesso intagliata ad arabeschi.
Dalla cornice pendevano, nei lati più soggetti alla vista, panneggi di lino doppio, ovvero cortine con tramezzi pizzillati (strisce di merletti) in linea verticale; affinchè i padroni stando in letto, non fossero spiati da occhio indiscreto e curioso, e potessero invece vedere, discorrere ed ordinare quanto si aveva a fare di lavoro.
Queste colonnine e cortinaggi si chiamavano travarche.
Talvolta vi erano anche altre camere con letti semplici su scanni di legno, o su trespiti (trepiedi, piedistali) di ferro, per gli altri componenti la famiglia, ma in esse la mobilia riducevasi a qualche cascione (cassone), ed a poche sedie pesanti, come se fatte con l'accetta di manifattura abriolana, perchè Abriola era il paese dei seggiari, ove si lavorava grossolanamente, senza progresso e finezza di modello.
Certe volte non mancava un antico stipo con accenno di arte e pazienza d'intaglio di lu cinchicient' (del cinquecento), come si diceva, e qualche comò ad impellicciatura di noce con pretesa di maggior lusso per rusticana agiatezza.
Ma il mobile più comune ed indispensabile era lu cascione (cassone) per mettervi i panni e i vestiti, lungo un otto palmi (due metri circa), alto un due palmi e mezzo, e largo due, di legno noce con intagli di ornato all'orlo del coperchio, senza vernice o lustro di pulitura.
In esso si conservavano anche gli oggetti di oro e gran parte del corredo dello sponsalizio; e per le famiglie denarose lu zaine (zaino di pelle di gatto) di durici carrini, cioè di piastre, che si stimava gran tesoro, se mai si fosse visto pieno, sebbene il più grosso poteva appena contenere un migliaio di lire, o poche centinaia di ducati.
Per dare un'idea di questa domestica agiatezza, alle espressioni ricordate nel precedente capitolo ne aggiungo altre due fra le tante: Int'a lu cascione non gni manca mai lu zaine di durici carrini ' Lu tene lu zaine a lu pizz' di lu cascione! (Dentro al cassone non gli manca mai il zaino di dodici carlini! Lo tiene il zaino ad un pizzo del cassone!), volendo indicare la ricchezza e la parsimonia della famiglia.
Non passava neppure per la mente di togliere una piastra o scudo da quel tesoretto domestico, che anzi il padre e la madre di famiglia si sarebbero fatte tagliare piuttosto le dita, sopra tutto se si fosse stipato quel danaro per la dote di una figlia, per l'acquisto di un fondo, o per altro rilevante affare di famiglia.
Ma una cosiffatta tenacità di economia e di risparmio derivava, potrebbe osservarsi, dalla poca espansione di vita commerciale; laonde si conservava con diligentissima cura quello scudo che per guadagnarselo, costava lungo lavoro e parecchi disagi.
Ne sia pur questa la ragione; però giova riconoscere che in quei tempi la vita era meglio ordinata e l'azienda domestica più regolare e savia, lavorandosi molto ed accontentandosi del poco, con metodo di prudenza e di proporzione, sicchè non si viveva spensierati, non si procedeva a sbalzi per ignoranza e temerità di azzardo; ma si faceva il passo, quanto lunga era la gamba.
Vi poteva essere povertà per infortunii, per contrarietà di stagioni, o per infermità di corpo; ma non miseria per insane voglie, perchè ognuno si limitava al necessario, quando non poteva disporre del superfluo, ed aborriva dalle vane illusioni, quando mancava del bisognevole; in guisa che uno si contentava del pane, se di pane solo poteva rimpinzare lo stomaco, ed in mancanza di pane non si stava in pensieri, bastando a saziarsi una fritta o una cotta di patate.
Non è certamente un quadro che lusinga la soluzione dell'umano problema e del sociale benessere, ma esso giova a confrontare quei tempi di parsimonia e di limitati desiderii con questi nostri, in cui si è cercato di vivere a furia di debiti e d'inganni per saziare le proprie voglie e le fameliche zanne del fìsco, imparando la nuova e facile arte delle strisce cambiarie!
Alle pareti delle camere, sulle quali di rado passavasi il rozzo pennello dell'imbianchino, vi erano figure di Santi e di Madonne, in cornici grossolane, spesso fissate anche con quattro chiodetti, o ammescate (incollate) con mollica di pane rammollita da saliva.
Nei sottani poi del'a casa, se davvero il padrone fosse stato un comodo massaio, si aveva cantina, legnaio, stalla, granaio, cascilare (caciolaio).
Nel granaio e nel cascilare, oltre le cannacamere e le codde piene delle varie specie di frumento e di granoni, e le molte pezze di formaggio messe a curare, vi si vedevano casse e sacchi di legumi, cumoli di patate, fisine (vasi di creta) colme di composta di peperoni all'aceto, raccolta di frutta, cocchie di uva, ed ogni altra provvista da stare in luogo fresco ed asciutto.
Quando i fanciulli sentivano che la mamma o la nonna era per calare in questi luoghi, le si mettevano attorno per esservi condotti, afferrandosi alla gonna con insistenza e piagnutosi, ed erano certi di tornarne a sacche piene con un po' di passatempo per i loro denti bianchi ed affilati.
In queste case di massari vagava sempre una schiera di galline, capponi, palomm' (colombi), conigli, qualche vicc' (tacchino), e dopo la fiera di Agosto o di Ottobre due o tre masciali (maiali) ad ingrasso per le provviste della casa.
Ecco, ecco la barbarie! diranno alcuni.
Il naso, non vi ha dubbio, ne soffriva; ma l'occhio si saziava di certo alla vista di quelie arche casalinghe!
Quando un raggio di sole allietava d'inverno una di quelle cucine spaziose, l'occhio di un artista avrebbe potuto cogliere una delle più attraenti scene caserecce di abbondanza, di vita, di varietà e di colori.
Difatti mentre la buona massaia tra le persone di famiglie si affanna e suda nel mollare con larga mestola di ferro la minestra nel bollente caldaio, di qua e di là pigolano e razzolano le galline; il gallo saluta altero con chichirichi l'onda tiepida di luce; lu vicc si consola a fare la ruota; i conigli sfilano a salti dall'un covo all'altro con le orecchie tese ed il muso nervoso e mobilissimo; i gatti stanno sdraiati di fronte al sole, o soltellano scherzando tra loro per un giocattolo qualunque; ed il maiale dorme ed ingrassa russando, o sta sulle zampe anteriori alzato a grugnire.
Completa poi la scena dell'arca domestica il tubare dei piccioni nei nidi ascosi, o talvolta il raglio del ciuccio stallino che cerca di essere abbeverato, o vorrebbe sfuriarsi all'aperto a godere del bel raggio di sole.
Anzi per quella gente , la quale non aveva lusso di orologi, il canto del gallo, la campana della chiesa, o il raggio del sole regolavano il tempo nelle faccende di casa, e nei lavori della campagna.
Appena canta la prima vota lu vadd", soleva dire, so 'nterra, cioè, sono alzato.
Ed eccone un'altra: Mo sona la scanta patrone, per significare: suona l'ora del mezzogiorno, la quale scantava (scuoteva, atterriva) il padrone sia pel pensiero della spesa dei lavoratori, sia per essere già passata metà della giornata, che egli avrebbe voluto chi sa di quanto prolungare a bem suo e a danno dei bracciali.
Nelle case quindi del tempo antico non si sentiva bisogno di mobilia costosa e intarsiata; di parati smaglianti e vellutati alle pareti; di portieri e di tendine civettuole a finestre ed a balconi; di tappeti morbidi a coprire interi pavimenti; di specchi larghissimi per mirarsi a sazietà, o per vedervi più volte riflessa l'eleganza della sala; di cristalli, porcellane, corbelle di fiori, ninnoli di moda e di vanità pretenziosa, dalle cui attrattive si lascia oggi sedurre anche la modesta famigliuola del borghese e dell'operaio, dimenticando la vera via per avere l'uguaglianza del diritto umano e sociale.
Invece eravi provvista e abbondanza per una vita frugale e comoda, sana e tranquilla, campestre e casereccia : in somma eravi lavoro ed economia, parsimonia e giudizio.
E quando si aveva il
gruzzoletlo, non tormentava la paura di vederselo strappare in ogni istante da un nuovo avviso di agente e di esattore, perchè in quei tempi vi erano, si, spioni di polizia; ma non benemeriti spioni dei sudori altrui!
Le strade, i vichi erano appena e malamente selciati, e nell'unica piazza, quella del Sedile, vi crescevano ciuffi di erba, per quanto mi è stato detto da quelli che ne ricordano lo stato verso il 1820.
Prima del 1818 non si avevano lampioni nelle vie, quindi nelle buie sere d'inverno bisognava, come dicevano, farsi lume col tizzone per non cadere in qualche trabucco, o rompersi il naso in qualche scala sporgente.
Vero è che a mezz'ora di notte ognuno era già in casa.
Si vedeva qualche lampadetta innanzi a imagine, o quadro di Madonna, incastrata nel muro, come quella presso la Pretura, ove un tempo avevano sede i Monaci di S. Giovanni di Dio, da cui trasse nome una delle porte della Città.
Tuttavia si viveva sicuri, tanto cbe si lasciavano alle volte le case aperte, ed alcune si chiudevano con un pezzo di legno dentato, a mezzo di un ferro ricurvo e falto ad angolo, detto lu votaiann'(il voltajanua), perchè mettendo l'un capo nel buco della porta (janua), con l'altro si faceva forza innanzi o indietro (vota da voltare) e l'uscio si apriva o si serrava secondo il bisogno.
Vera mascatura, o toppa primitiva!
Di rado si sentiva la ruberia di ladruncoli, che ad intimidire la gente si dice si aggirassero tra le ombre, alzando ed abbassando uno spauracchio di cencio, col mezzo di un congegno di canne.
Per tale malizia di birboni più si accreditava la diceria delle malombre, pregiudizio ohe veniva forse alimentato anche dalla furberia di qualcuno che sgaiattolava in cerca di avventure e di amori proibiti.
Se oggi nelle città popolose i ladruncoli ne fanno tante ad ingannare ingenui ed accorti, non mi fa meraviglia, se in quei tempi, ed in paesi agricoli e montanari, avveniva qualche furto, ricorrendosi rozzamente a certe arti!
Questa descrizione sommaria dell'antico aspetto della città, ritraendo la sintesi storica di parecchi secoli, serve di confronto per le innovazioni dei tempi moderni, che cominciarono fin dalla venuta del dominio francese, sotto il regno di Giuseppe Buonaparte; imperocchè la verità non deve essere adombrata da studio di fallaci inesattezze, nè da sospetto di vanterie bugiarde.