il costume - Luigi Albano

LUIGI
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Vestimenta e costume

In nessuna parte d'Italia, io credo, vi ha tanta varietà di costumi quanta se ne vede nella nostra provincia.

Si noti però che la parola costume indica propriamente quella foggia di vestito, caratteristica e popolare, onde la donna si adorna e si abbella nei dì di festa.

Ogni paese ha il suo, e secondo i luoghi e le tradizioni varia con la forma la scelta e la gaiezza dei colori, la gala dell'abbigliamento e dei monili.

Ve ne ha dei semplici e modesti, e ve ne ha dei pittoreschi e smaglianti.

Tanta varietà risale a tempi antichisssimi, forse quando la nostra regione, tagliuzzata in repubblichette e statini, accoppiava alla semplicità e floridezza delle Genti lucane il gusto e la venustà delle Colonie greche.

Sarebbe studio dilettevole ed utilissimo il ricercare in questa diversità di fogge e di costumi l'origine etnografica di ciascun paese e le fasi storiche d'invasioni e signorie, che vi lasciarono impronta duratura; ma le difficoltà sono moltissime, tanto più che da noi non vi sono raccolte di monografie, di quadri e di ricordi artistici, che di tale studio agevolassero il pensiero e la fatica.

Il costume potentino, a differenza di altri della provincia, da circa un secolo a questa volta, ha subìto parecchie trasformazioni di eleganza e di capriccio, cercando d'imitare i gusti e la moda signorile.

Vi ha di fatti un'evoluzione, direi, di cambiamento e di distacco tra l'antico costume ed il moderno, come nella vita e nell'aspetto generale della città, del quale paragone non si può avere idea senza la conoscenza del vecchio e del nuovo stato.

Fin dal 1806, quando Potenza divenne capitale della Basilicata, cominciò una vita nuova, che si svolse a grado a grado, seguendo date ed avvenimenti storici, che è bene compendiarne le diverse fasi.

Dal dominio dei re francesi sino alla ristaurazione dei Borboni, tra le parecchie e radicali rinnovazioni, s'iniziò il miglioramento di strade e di fabbricati, di ambiente e di coltura, dandosi lo sfratto al codino ed alle brache.

Dopo il fugacissimo risveglio per la rivoluzione del 1820, le innovazioni divennero più timide e lente, per ripigliare novella vigoria degli entusiasmi del 1848, a cui successe una certa sosta sino al 1860; sebbene si vedesse un abbellimento nei fabbricati dopo il terremoto del 1857.

Dal 1860 in poi lo spirito innovatore di rivoluzione fu in ogni cosa turbinoso e violento.

La gente parea presa da vera ebbrezza nel rovesciare, mutare e vilipendere quanto sapeva di antico; sicchè l'opera di pochi anni valse e superò il lavoro di molti secoli.

In ogni discorso si aveva gusto di rilevare la fortuna e la civiltà dei nuovi tempi, usando sempre parole di compassione e di sarcasmo verso i nostri nonni, giudicandoli meschini, gretti e di mente corta quanto una spanna.

Vi concorsero le leggi e le arti del governo, i lavori della ferrovia, il nuovo sistema d'istruzione civile a popolare, la facilità degli impieghi, gli allettamenti del commercio, le istituzioni delle Banche, il comodo mezzo delle cambiali, il rimescolamento delle classi, le attrattive della moda, ed il fascino di mille illusioni e di esagerate speranze.

Vero è che camminavano li tornesi, ne si sentivano ancora fitte e crudeli le torture fiscali, le crisi economiche e gli amari disanganni, che quasi di botto hanno gettato la sfiducia e lo sconforto per fallimenti e miseria, e rendono ora disperata la lotta per la vita, ed in certo e fosco il problema del progresso.

Un solo ricordo di costume antico, della prima metà del secolo decimo sesto, si ha nella Chiesa di S. Francesco, sul surcofago di Donato Degrasis (forse De Gratiis), ricco uomo potentino, chiamato volgarmente Malamigliera, per soprannome datogli ai tempi suoi.

Questi giace disteso, di statura naturale, col suo bel barbone e con le mani incrocicchiate, scolpito a rilievo sul sarcofago di dura pietra nostrana, che è sostenuto da due grifoni sul gusto del cinquecento, opera di molto pregio artistico e di valore.

Ebbene la foggia del vestito è semplicissima.

Un coppolino o berretto in testa; un camice o tunica lunga sino alla rotella del ginocchio, allacciata nei fianchi e ricca di gonnellino a molte pieghe; calzettoni a maglia, che salendo sino alla coscia, disegnano il contorno della gamba, annodati verso la giuntura del ginocchio; e scarpe di un sol pezzo basse e grossolane.

A proposito del Degrasis, dicesi che i trentatre ntinni, o tocchi di campana, che si suonano dopo l'ora del Pater noster alla Chiesa della Trinità, siano a memoria di lui, per aver lasciato al Capitolo di detta Chiesa una masseria grande, come un feudo, denominata appunto Malamigliera.

Li trentatre ritinni ancora si suonano; ma la masseria se la prese il governo per la legge d'incameramento del 1867.
Peccato che il Degrasis , che ebbe, ancor vivo , il pensiero ed il gusto di farsi ritrarre sulla tomba, costruita per se e per la moglie « vivens Sibi-Uxcoriqe sue (così è scritto) — Faciendum curavit — Anno D. e M. D. XXXIIII » non abbia fatto scolpire, d'accanto a lui, la moglie, ancorchè Malamigliera, perchè avremmo così avuto anche il costume della donna di quei tempi.

Non avendosi altro ricordo di epoca lontana, bisogna contentarsi di conoscere qual'era il costume potentino al principio del nostro secolo, e seguirne le trasformazioni successive, secondo le notizie raccolte con diligente ricerca.

Anticamente i contadini portavano nell'inverno una specie di pastrano senza maniche, detto lu purcione (pelliccione di pecora o di montone) per ripararsi dal freddo e dalla pioggia.

Talvolta si faceva più corto ed attillato, a guisa di giubboncello, con orlatura screziata; ma questa era moda propria dei pastori.

Dall'usanza del purcione venne certamente l'espressione di pillicci, che si dà ai bracciali per ironia e disprezzo.

E ne venne la frase: gn' acconciaze bone bone lu purcione (gli acconciò ben bene il vestito), per dire: lo battette, o bastonò per le feste; che vale pure: gli fece una brutta testimonianza, relazione o rapporto.

I contadini più agiati, in vece del purcione, usavano la velata, lunga pure come un pastrano, ma più leggiera, onde il suo nome di velata; ed era di cerrito, panno ruvido e resistente, di colore monacale o di caffè bruciato.

Nella stagione più mite si portava lu varniedd' (guarnello), a somiglianza della moderna chemise.

Era di filannina (filandina) di colore blu oscuro, tessita a Potenza, o in altro paese della Provincia; senza bavaro o colletto, e molto comodo per taglio « gusto villereccio, da non dare fastidio nel lavoro, quando si metteva nei giorni di acquerugiola e di freschetto.

Il povero Raffaele Danzi , poeta popolare in dialetto potentino, nella sua canzone « la costituzione di lu 1848, esortando i giovani a difenderla, fece sul varniedd' una bella metafora, quando disse:

« Affilareve li ccett
« Nu ddasciar' li curtiedde,
« E pensar' ca lu varniedd
a Nu v'avir' da fa strazzà.

(Affilatevi le accette — Non lasciate i coltelli. — E pensate che il guarnello. — Non v'avete da fare stracciare), pensate, cioè, a non farvi stracciare la pelle, o togliere la vita.

Più tardi, verso il 1830, al purcione ed alla velata sostituirono il largo cappotto di cerrito, per meglio coprirsi e difendere nelle grosse nevate contro le furiose raffiche del pulvino, o nevischio.

Nei primi tempi anche la cammisola (cammiciola o panciotto) ed il calzone corto con la braetta (brachetta, brache) erano di cerrito, con bottoni ruvidi di ferro; ma in està si andava in cauzunett (calzonetto) di tela di casa, o lino doppio (tessito in casa) , ed in manie di cammiscia (maniche di camicia), rimboccandole sulle braccia da lasciare libera la aramiedda (avambraccio) muscolosa ed arsicciata dal sole e dalia polvere.

A coprire le gambe usavano stivali di filannina bianca, e per i piedi pezze dello stesso panno, e scarponi, calzatura antica alla romana, di rolla, o cuoio grezzo e giallo delle concie di Montemurro, lasciando lu arrone (calcagno) scoperto; sicchè si aveva il passo facile e leggiero.

Qualche vecchio agiato portava scarpe doppie e grossolane con fibbie larghe di ferro, ricordando una costumanza del triste dominio spagnuolo.

Scarponi e pezze formavano una calzatura comodissima per i lavori di campagna, perchè il contadino, ritirandosi la sera col piede molle ed incretato, se li toglieva, mettendoli ad asciugare vicino al fuoco, o alla catena del focolare, per rimetterseli la mattina senza danno della salute.

Dal modo di allacciare scarponi e pezze con zucariedd' (funicelle), intrecciate a croce sul piede ed a molti giri attorno la gamba, si trasse molto d'ingiuria e di disprezzo per i poveri bracciali, chiamandoli gente maladetta da Dìo, perchè portavano ancora la croce sul piede, a memoria del loro preteso delitto contro il Giusto delle genti.

Ma non furono essi che crocifissero il Cristo; furono gli Scribi e i sacerdoti, rappresentanti l'intolleranza, il privilegio e la ricchezza!

Si dava ai bracciali, per tradizione antichissima, anche il titolo di Caini.

Ma neppure questo nome di odio e di dileggio parmi che indichi altra colpa, tranne quell'eterno corruccio di animo ribelle contro quanti, profittando dei loro stentie delle fatiche, signoreggiano e pretendono diritti e prepotenze feudali.

Vi sarebbe quindi in queste ingiurie storia di contrasti e di quistione sociale, che oggi i nostri contadini risolvono coll'emigrare, lasciando che i proprietarii guardassero tristi e pensierosi le loro terre povere e deserte!

Portavano in testa nu cuppolino di lana o di cotone con fiocco pendente sull'orecchio, oppure la paparino, (forse papalina) di panno cerrito con certe ali che si abbassavano nei giorni freddissimi e nevosi per coprire le orecchie e parte della faccia, e si rialzavano nel buon tempo, attaccandone le punte sopra il capo.

Al coppolino ed alla paparina sostituirono lu cappiedd' pizzutu (cappello pizzuto) a forma di cono smussato in punta, con falde strette in confronto dell'altezza, senza gala di nastri o di fettucce.

Erano di feltro durissimo, e si fabbricavano a Lagonegro.

Quando i contadini si adiravano nel correggere un tìglio, o altro fanciullo, gli tiravano una punta di scarpone sulle natiche, o togliendosi il cappello, davano con la punta sulla testa; ed allora il povero fanciullo, piangendo, si metteva le mani alle chiappe per comprimere il dolore, ovvero si tastava in testa per vedere, se gli sanguinasse lu brugnocculo (bernaccolo), o si trattasse di semplice lividura.

Non portavano barba, e si tagliavano i capelli rasi o corti per la polvere ed il sudore.

Migliorando i tempi, venne la moda del capano di panno di monaco con mostre ed arabeschi di velluto al collaro, ai gomiti ed alle maniche; con bottoni bruniti, dai quali pendevano per abbellimento trine di lana, sfioccate in punta.

Si facevano calzoni di felpa o di vellutino, ma sempre corti e con le brache; la cammisola (panciotto) di panno bordiglione ; ed attorno la vita portavano una fascia bleù per cintura.

Usavano calze di lana bianca, o di cotone a maglia; ma più spesso stivali di panno di monaco, che quasi dall'orlo della coscia scendevano stretti ed abbottonati fin sulle scarpe, a cui si fermavano con le staffe; sicchè designavano la forma della gamba, e di sotto la piegatura del ginocchio si allacciavano con zaaglia (ligacce) screziate, che si lavoravano nelle carceri.

,Ncanna (in canna, gola) bastava il bianco della camicia; ma poi i contadini giovani e bizzarri, per sembrare più belli ed eleganti agli occhi della zita, incominciarono a mettersi nu muccaturo (faccioletto) di cotone, e più tardi di seta, preferendo sempre disegni allegri di rosso vivo.

L'insieme di questo vestito di festa dicevasi muranna (mutanda).

Tiegn' na bella muranna — M'aggi fatt na scicca muranna. (Tengo una bella mutanda. Mi ho fatto una mutanda bella), significavano costo e lusso di vestito; e non averne, indicava disagio e miseria.

I mulattieri davansi aria di classe distinta e un po' bravacela, portando cammisola di panno scarlatto, cappello piatto, fascia rossa o verde, e gli orecchini, come i vetturati ed i trainieri delle campagne di Napoli e di Salerno.

Veramente in quei tempi portare anellini di oro alle orecchie era la costumanza di parecchi, forse non tanto per gusto di vezzo femminile, quanto per preservare, come credevasi, gli occhi da afflussi di sangue e da malattie.

Bisognava vedere come s'appintiddavano (appuntellavano, si pavoneggiavano) i nostri contadini nelle feste solenni e nei cortei di sponsaiizio, camminando diritti e lieti col cappello pizzuto di lato o sull'orecchio, e con le mani nelle tasche del capano, facendo arco con le braccia.

Oppure quando, fatto un bicchiere di vino, si mettavano nei giorni di festa, a capo di li cuntane (ove i vichi imboccano sulla via), a chiacchierare, tenendo a modo loro circolo di affari, di lavoro e di cronaca paesana.

Li vagnincieddi (guaglioncelli, giovanotti) trovavano invece gusto di passatempo a mettersi in giro, con le braccia l'uno attorno al collo o sulle spalle dell'altro, o cantaro 'mmocca (in bocca) la porta di la zita, dove subito si raccoglievano li vagnardedde (figliole) del vicinato per sentire quegli amorosi cori di voci alte e fioche a cadenze monotone ed allungate.

Mentre quei giovinoli stancavano la trachea ed i polmoni, li prisciannuledde (figliole vivaci, allegre) fingevano di discorrere tra di loro, senzi darsi pensiero dei cantanti però di tanto in tanto mandavano occhiate fugaci, gelose o penetranti, che ben rivelavano come quel canto turbasse loro il cuore, così caldo di sangue e di giovanili amori.

Anche questo costume, come si dirà più innanzi, ha perduto oggi quella sua caratteristica di fisonomia schietta ed onesta.

La classe dei mastri artigiani, o degli artieri, detta pure medio ceto, non aveva una vera e distinta foggia di costume paesano, come l'ebbero quasi sempre per ragione di vita e di lavoro i bracciali o contadini.

Parecchi del medio ceto, forse i più civili e più agiati, sul principio del secolo portavano ancora lu sarachino (forse da saraca, salacca) o sciammirichino (giamberichino) alla spagnuola; cammisola scollata; calzoni corti di panno o di vellutino con brache e fìbbiette; calze bianche di lana o di cotone; scarpe o scarpine con fibbie; ed anche il codino incipriato con annodatura e gala di nastro, che scendeva sulla schiena.

Però le brache ed il codino erano fatti laceri ed aggrovigliati dal fulmine della rivoluzione giacobina, ed erano già sulla via dei cenci vecchi e delle anticaglie da musco; tanto che colla venuta dei Francesi il codino sparve, e le brache rimasero distintivo dei preti e dei bracciali.

Dallo sciammirichino si passò alla giacchetta corta ed attillala col pizzo dietro, toccando appena la cintura della vita, onde le natiche si vedevano meschine o tondeggianti.

Per molto tempo la giacchetta restò in generale il distintivo degli artieri.

In testa portavano la coppola di castoro, larga di sopra a guisa di frittara, e con visiera di cuoio verniciato.

Tale moda venne forse dopo i rovesci di Napoleone I. , o nell'occupazione militare dei Tedeschi, sé pure non si voglia ritenere un' imitazione della coppola degli ufficiali di marina.

Certo si è che la coppola, per essere comoda e leggiera, ebbe voga lunga, pur facendo largo al cappello di feltro, di pelo di lepre o di coniglio, a forma cilindrica alquanto bassa, che gli artieri adottarono come distintivo di progresso, e che si fabbricavano qui ed a Lagonegro.

Si affacciò nel tempo stesso la moda del soprabito cu li pettile dongh (falde lunghe) e con bottini piatti e lucidi di ottone, che verso il 1830 fu presto sopraffatta da quella più elegante del soprabitino; come il cappello di feltro mutossi in cappello di seta a pelo lungo e lucido, di forma cilindrica, che dicesi anche ora cappello a tubo, o a fumaiuolo.

Nei tempi successivi la giacchetta si fece più comoda e lunga, e prese nome di bigiacco, o doppia giacca.

In està i calzoni di siovia (segovia) e di castoro diedero posto a quelli di tibet e di lanetta, e per parecchi anni a quelli bianchi di basè e di doga, cioè di filo o di lino, che poi si mandarono alla malora, perchè si macchiavano, e facilmente si prendeva, sudati, una infreddatura.

Però non tutti gli artieri seguivano questo variare di moda, ne tutti avevano mezzi a levarsi il gusto ed il capriccio; quindi nella classe eravi confusione di giacchette e di bigiacchi, di antichi soprabiti e nuovi soprabitini, di coppole e di cappelli.

Si vedevano poi certi tipi, vecchi e solitarii, che compendiavano la storia di queste mode, accoppiando insieme antica a foggia nuova.

Quasi fino al 1860 visse il vecchio di Capidicasa, che portava calzoni corti con le brache, calzette bianche, giacchetta e cappello di seta a fumaiuolo.

E si vedeva pure il vecchio Fierr' che lavorava, dando col maglio sull'incudine di fabbro ferraio, vestito con calzoni lunghi di felba, giacchetta corta e cappello di seta, fatto unto e bisunto ed ammaccato per ingiuria di tempo e di miseria.

Talvolta questa smania di novità e di eleganza degli artieri destava la critica ed il dispetto di qualche mordace alantomo , o proprietario superbo e fannullone.

Era uscita la moda del pulpito, una specie di paletot, arabescato di lacci e costoso.

Un valente sarto, solito di vestire egli pel primo in moda per richiamare acconti ed avventori, se ne fece uno elegantissimo, ed in giorno di festa si mise a passeggiare per Via Pretoria.

Fu questo un delitto per un maldicente alantomo.

Forse che dal ventre materno si nasce tutti uguali ? . . . Signora mia , coni' è lu tovo è lu mio! disse la contadina; ma disse male.

Chi porta la sciammarea, sebbene abbia tra le eredità dell'avo ancora lu purcione, deve sempre ritenersi nobile di sangue e di fortuna ! . . . Ora quel grazioso signore, non sapendo come sfogare la rabbia ed il corrivo, chiamò il suo cocchiere, e lo condusse ad un sarto di sua dipendenza, ordinando a costui di fargli un pulpito, tale e quale a quello del sarto modista.

Il cocchiere di certo fu lieto e contento.

Avuto il pulpito, il signore comandò al cocchiere di andare così ben vestito a comprare la carne in Piazza del Sedile, dove stavano allora i beccai; ma doveva egli portarla appesa alla gionca (giunco) col braccio disteso, a vista di tutti, se non avesse voluto esser cacciato dal suo servizio.

E cosi fu fatta la volontà del padrone ! . . .

Ora giudichi il lettore, se sia più scusabile la vanità del sarto, o il borioso dispetto del signore, chè io riprendo il filo dei ricordi.

Parecchi anni prima che scoppiasse la rivoluzione del 1860, quasi tutti i primarii artieri nelle feste di S. Gerardo e del Corpus Domini facevano la loro miglior mostra di vestito e di eleganza, aggirandosi fin dal mattino lieti per le vie; quindi bizzarria di scarpe verniciate e di cappelli di seta a tubo, calzoni di Segovia e gilè screziato o nero, giacchetta corta o bigiacco di castoro fino, insieme a qualche sopra bito di maggiore lusso.

Come se ora li vedessi compatti ed uniti in Piazza, nell'ora più solenne della processione e della festa, e fra gli altri mio padre che in giacca corta, e tubo e col suo nodoso bastone la faceva da capepopulo tra contadini ed operai.

Nella mia fanciullezza, vedendo quel tubo ad un angolo del cascione, scherzavo, mettendomelo in testa, sicchè gli arruffavo il pelo, o gli facevo qualche ammaccatura, laonde nei giorni della rituale mostra bisognava che mio padre lo ricambiasse, o gli facesse dare una ripassatina di ferro, per rivederlo lucido e pulito.

Ma anche il tubo passò di moda, appena si mutarono i tempi e le idee.

Dopo il 18 agosto 1860, data memoranda dell'Insurrezione potentino-lucana, la vita nuova e democratica sconvolse nell'ebbrezza gusti e pensieri.

Sparirono distinzioni e distacchi; e tubi e cappiedd' pizzuti andarono a malora.

Variando, si fece la moda quasi cosmopolita, onde cappelli All'italiana, a panamà, a cencio e quelli tondi e duri a falde strette.

Invano rimpiangevano alcuni le usanze aristocratiche, aspettandone il ritorno.

Eppure, sino a pochi anni sono, vedevasi il vecchio barbiere Ciscirone (Cicerone) starsene ritto ad arrotare rasoi, in giacca corta e cappello a cilindro di seta, arrossito per lungo servizio.

Ora soltanto il cappello a gibus apparisce nei balli e nelle mostre ufficiali timido e per breve ora, salutato da frizzi e da ghignate di burloni.

Tralascio di descrivere il vestito e le usanze di li alantomo (dei galantuomini), potendo ognuno farsene idee, ricordando il figurino dei passati tempi e le tradizioni del proprio paese.

Piuttosto sembrami utile dare alcune notizie sull'abito dei preti, tanto per calmare le meraviglie dei forestieri che vengono tra noi.

I nostri preti non si videro mai uniformi nel vestito, quindi chi in zimarra, chi in sola sottana abbottonata e chi in sottana e cappottino.

Un tempo la zimarra ebbe forma alla San Rocchino, con pellegrina corta sulle spalle e la cinta attorno la vita, a stringere i fianchi; ma poi si credette più comodo usarla semplice, senza ornamenti e senza fastidii.

Nell'inverno si portava il cappotto a tutta ruota con l'annessa pellegrina, oppure la doppia zimarra, o il pulpito foderato e lungo quasi sino al tallone del piede.

E poi calzoni corti e con le brache, tricorno di feltro a pelo di lepre o di coniglio, scarpe con fibbie o allacciate, stivaletti di panno, o stivali di cuoio a mezza gamba, detti comunemente alla pretina.

Verso il 1820, in quei fugaci entusiasmi di libertà, alcuni preti si misero il cappello a tubo, come i parroci della campagna toscana; ma presto per i rigori della polizia, aiutata dai Tedeschi, si tolsero quell'arnese, e vennero in moda le pagliette, cioè tricorni di paglia, coperti di seta, e più tardi quelli di seta a pelo lungo e lucido, e poi di tibet, che si lavoravano da cappellai potentini.

Quando si andava in campagna, o si usciva a passeggio, portavano soprabito lungo a doppio petto, che poi si fece alla romana.

Tutti i preti, per rito o per usanza, si lasciavano le baffette sino a metà di guancia; ma dopo il 1848 i soli vecchi ne serbarono il costume.

L'abito di prete di vera eleganza si componeva di soprabito alla romana, cioè senza collaro rivoltato, di calzoni corti, calze di seta e scarpine con fibbie e verniciate.

Dopo la rivoluzione del 1860, in quel turbinìo di uomini e di cose, l'abito di prete subì il fascino di libertà e di riforme, prendendo moda e taglio di gusto secolaresco; quindi calzoni lunghi, paletot e clamise, cappello di tibet o di feltro con lieve rialzatura di falde e senza lacci, stivali e stivaletti.

Addio fibbie, addio calze e fiocchi rossi o violetti!

Anche in chiesa la zimarra si ridusse smanicata (senza maniche), sovrapponendosi all'abito di città e di passeggio.

Nelle gite in campagna e nelle ore di svago o di comoda penombra si vestiva proprio alla borghese.

A queste bizzarie di mode liberali e secolaresche si cerca ora di porre freno, ripristinando, con allettamenti ed offerte, assai sospette, gli onori ed i distintivi dell'abito talare; ma finchè dura la arera (creta) vecchia, e spira il soffio di certe idee, non pare che si riesca nell'intento e nel lavoro.

Dopo ciò, sembrami tempo di ricordare come vestivano le contadine e le pacchiane, o descrivere il costume potentino, notando le trasformazioni di novità, di gusto e di eleganza.

In Potenza, come in tutte le città e paesi della Provincia, un tempo il costume doveva formare il tipo unico dell'abito femminile, meno lievi distinzioni di classi e di agiatezza, essendo più che mai raro il lusso della veste e della moda signorile.

Storicamente le parole contadino e pacchiano ebbero nella loro origine significato collettivo, in senso polìtico o religioso, esprimendo la sorte e soggezione del vinto di fronte al vincitore e alla conquista.

Di fatti contadino, da contado, ricorda l'invasione dei Barbari ed il feudalismo medioevale, così manesco e rapace nelle nostre contrade, ove non si ebbe libertà e vita di Comuni; e pacchiano (pagano), dal pagus latino, ci rammenta epoca anteriore di contrasto, e passaggio dalla religione antica a quella cristiana.

Col tempo entrambe le parole passarono ad indicare distinzione di ceti o di classi; sicchè pacchiana si restrinse a titolo della donna del medio ceto, o dell'artigiana; e contadina a distinguere la donna di campagna, o la bracciale.

A ben ritrarre il costume potentino, vorrei servirmi della parola, come fu il paesista coi colori, accoppiando a forma eletta la maggiore vivezza di colorito paesano; ma dubito che io giunga a contentare il mio ed il gusto del lettore.

Il vestito delle contadine era semplice e modesto.

Portavano sottaniello di flannina; fascittella di panno scarlatto con bottoncini di argento, pendenti a guisa di ciondoloni, ai lati delle menne (mammelle); e corpetto, o busto, arabescato, innanzi e dietro, di strisce a greca e di fiorami, fatti con laccelto di lana o di seta gialla, oppure con laccetto di falso oro.

Il corpetto si componeva di due parti, l'anteriore e la posteriore, che si allacciavano ai fianchi; e l'una s'incavava dietro il collo pel libero movimento della testa, e l'altra s'incurvava di sotto all'orlo delle mammelle, facendone meglio risaltare la rotondità è le grazie.

Di sopra agli omeri vi erano i muschi, (muscoli) o strisce , che lo tenevano fermo, e nella parte inferiore la pettina, che scendeva a comprimere il ventre sino quasi all'ombellico.

Quando una giovine si fascia carè, o scuffulà li muschi (si faceva cadere le strisce), dava segno di essere una vera sciaddea (sciatta), e non così facilmente trovava a maritarsi.

Si da mo (da ora), si diceva a rimprovero, ti fai scuffulà li muschi, considera quann' ti marira (quando ti mariti)!

Corte erano le maniche del busto, rimanendo scoperta la aramiedda o avambraccio; e si allacciavano ai muschi con fittucce, o nastri, di un sol colore, lasciandone cadere le nocche dietro le spalle.

L'orlo ne era pure laccìato a greca, da cui appena appena usciva un pò del polso della camicia.

Intorno al collo faceva gala il riccio della camicia, le cui maniche formavano le boffe larghe e ricche sulle braccia, coprendo in parte le maniche del busto o del corpetto.

Lu cuorp' (corpo) della camicia, cioè la parte inferiore che dai fianchi sino al piede copriva la persona, era di tela doppia e grosso lana, tessuta in casa, donde il nome di tela di casa; ma lo scollo facevasi di bammascella (bambagella), o di tela più fine; affinchè servisse meglio alla mostra delle boffe delle maniche, e spiccassero più le grazie ed il colorito della gola e della faccia.

Non vi era allora usanza di maglie e di mutande, sicchè l'aria libera carezzava la pelle nell'estate, e la raggrinzava nell'inverno, senza pericolo di reumi e di malanni, godendosi di più valida salute, non essendosi ancora inoculata e diffusa nel sangue la sifìlide.

Poco bisogno quindi si sentiva di cure farmaceutiche, ed i bagni marini erano molto lontani!

Calze di lana e scarpe grosse, e spesso se ne faceva a meno, avvezzando il piede alla polvere, al fango ed alla neve.

In collo un modesto maccaturo (faccioletto) bianco, o di un colore, detto a scorza d'albero, piegandolo in due, a forma triangolare, ed appuntandone una cocca dietro le spalle, e le laterali innanzi al petto tra il cavo delle menne, o poppe, quando non si faceva gala del riccio della camicia.

Anche in testa un simile maccaturo, ripiegandone due punte, l'una sull'altra, sovra il capo, per far vedere come si dondolassero ad ogni movimento gli orecchini a cerchione con le perle di oro pendenti, o quelli alla turca, fatti a cupolino e con sottili laminette in giro, formanti fiocco.

A dirla in breve, le moderne civetterie non si affacevano alla vita campestre, modesta e casalinga delle contadine di quei tempi, quando non vi erano allettamenti e usanza di passeggio, e solo nella rumorosa festa di S. Gerardo si andava in Piazza a sentire qualche sera la banda, e a vedere li fuoe (fuochi) d'artifìcio.

E poi bastava l'aria di campagna ed il raggio del sole a rendere più puro e fluido il sangue, e ravvivare il rosso delle guancie e delle labbra, su cui veniva la voglia di scoccare un bacio, senza intridersi di cipro e di belletto.

Le donne del medio ceto, o le pacchiane, vestivano quasi lo stesso, variando solo nella finezza e qualità della roba, nel gusto di adornarsi meglio, e nell'incipiente voglia di novità, che crebbe col volgere degli anni; sicchè ritoccando e ammodernando questa o quella parte del costume, lo resero più capriccioso, elegante e civile, senza togliergli il carattere sostanziale del tipo potentino'.

Noterò nel più breve modo le differenze di tale moda paesana e femminile, senza perdere di vista lo scopo e la schiettezza storica in queste ricordanze, che potrebbero a qualcuno sembrare volgari minutaglie.

I sottanielli se li facevano di panno o di castoro; la fascettella di lanetta o di seta con gala sull'orlo delle braccia; il busto ricamato di seta, di sciniglia, o di oro, la cui cascia (cassa) era fatta di giunchi con bacchettine di ossa di balena, allacciandolo dietro, e non ai fianchi, e stringendo il petto, come in una morsa, da rendere penosa la movenza ed il respiro.

E quasi ciò non bastasse, a comprimere il povero torace, si mettevano alla fascettella una stecca d'ausc (bosso), che dal cavo delle poppe scendeva all'ombellico, per dare grazia al petto e tenere diritta la persona.

Ed un po' di malizietta sempre c'era, tanto che le giovinette, scarne di poppe, se le facevano con rimbottitura di pezzuole.

Le maniche del busto, da prima corte, si fecero lunghe per maggiore eleganza, o per coprire braccia secche e disformi, togliendo agli occhi l'agio d' indovinare da un braccio bianco e ben tornito la formosità del corpo, nascosta sotto le fitte pieghe della gonna.

Si attaccavano alle spalle con fettucce di vivi e svariati colori, e le nocche, o nappe, pendevano due per lato, larghe, belle e pompose.

II sottaniello, o gonna, doveva essere ricco di pieghe, che dalla cintura calavano dritte e strette sino al tallone, e quando si fossero un po' guastate, si rifacevano con pazienza e cura a mezzo di acqua e di scopetta, raffermandole a soppressa sotto la scanatora, o tavola, su cui mettevano il pesante mortaio e grosse pietre.

Da questo lavoro e foggia di pieghe venne l'espressione di sottaniell 'nculunnare (incolonnato), per indicare costo e bellezza, prendendo talvolta questa frase un senso di maldicenza, d'invidia e di dispetto.

Lu vantisene (grembiale) si faceva di lanetta o di seta nera, con pieghe e con qualche striscia di velluto; ma più tardi con frange e merletti di costo e di capriccio, da non sapere più che farvi per novità di moda e di gusto.

Alla gola si facevano bello con qualche filo di coralli o di vetri colorati, e con la stella d'oro, o la crocetta.

Nelle pompe di sponsalizio si aggiungeva a gala la collana, composta di tanti anellini piatti o di stellucce, che adornavano in doppio filo anche il petto.

Nei tempi successivi venne in moda un nastro di velluto con susta, d'oro, il laccetto d'oro col brulocc' (breloque); e la collana divenne laccio, e crebbe di peso e di valore per l'orologio che, a guisa di ciondolo, si faceva pendere, appuntandolo al lato destro dol petto.

Lisci e lucenti di olio si portavano i capelli, spartiti sopra la fronle dalla scrima che poi scendeva, da ambo i lati, verso li sonn o tempie, a differenza di oggi che si fa ad un lato, e sparisce tra il folto delle ciocche arruffate dal pettine e dall'arie.

Quindi le treccie anteriori si passavano sulle orecchie, e si riunivano a quella più lunga e grossa della nuca, ravvolgendosi insieme in molti giri per formare lu tupp che si annodava con trezzuole o zaaglie (trecciuole, nastri), e più tardi si usò di fermarlo con ferretti.

Ricordo però alcune vecchie che lasciavano cadere i capelli a cannuole, o a trucioli innanzi alle orecchie, serbando moda e gusto signorile.

Di specchio?.... poco uso, anzi per lo contadine poteva dirsi oggetto di raro lusso, e solo quando passavano dinnanzi a qualche limpida fontana, si levavano la voglia di mirarsi.

Nelle feste di sponsalizio gran gala di facciolettone di raso damascato color canario o di altro coloretto, ricco di frangia sfioccata o ritorta, e fermato sul capo con uno spillo d'oro.

Invece del facciolettone di raso damascato, quello di casimirr' (cachemire), di granatina, o velo crespo con fiorami.

Pel lutto il facciolettone era di lana nera con fiorami di seta, o di raso nero damascato, però portavasi di sotto la gonna che copriva il capo.

Il coprirsi era una costumanza assai caratteristica e tutta potentina, oggi quasi interamente sparita, cho in certa guisa trasportava il pensiero dell'osservatore nei paesi dell'Arabia e della Persia.

La donna potentina, quando per qualsiasi scopo usciva per la città, costumava, meno nelle liete pompe di sponsalizio, di sovrapporre al sottaniello di sotto un altro più fine, rialzandone la parte di dietro a coprire il capo e la persona io guisa, che si restava appena libero un po' di faccia, tanto per vedere dove si mettesse il piede e per rifiatare.

L'orlo si riuniva alla punta del mento, tenendolo fermo con la mano sinistra.

Donde e quando tale costumanza traesse la sua origine, io non so.

Di certo era antichissima, ed indicava soverchio sentimento di modestia e di pudore; laonde se anche una giovinetta, insofferente, del severo rito, avesse voluto fare l'occhiolino dolce a chi l'avesse guardata con amore, non poteva mostrarsi sfacciata a suo piacere.

Variandosi a grado a grado il costume per gusto femminile, parve più avvenente e simpatica la pacchianella potentina, acquistando un portamento ed una grazia più civile, tanto che un pittore, a ritrarne qualcuna delle belle, e non sono poche!, non vi perderebbe il tempo ed i colori.

Però la successiva gara di ritoccature, di ricami, di fronzoli, di merletti e di gingilli divenne talvolta un'esagerazione assai barocca e civettuola per alcune.

Oggidì anche le contadine vanno a capo scoperto per far mostra di capelli pettinati secondo la moda signorile; usano nei dì di festa polveri di riso ed i belletti; portano facciolettoni, fisciù o scialli di paziente lavoro e di capriccioso effetto; ed il sottaniello cala senza le fitte pieghe all'antica e alquanto corto, da far vedere lo stivalino elegante a tacco alto, che mette a tortura il piede, e gli fa passare il rischio di una storta.

Eppure non ostante queste trasformazioni ed abbellimenti di moda paesana, dalla rivoluzione del 1860 in poi si prese in odio il costume e venne la manìa della veste e del cappello; imperocchè la larga lusinga di civiltà e di eguaglianza ridestò l'istinto dell'umano diritto, che mai si cancella, esaltò la fantasia, e la veste divenne il sospiro di ogni fanciulla.

Anche prima si affacciava a qualcuna il desiderio, della veste; ma passava presto, stimandosi vana voglia di sorte rara, come la vincita di un terno al lotto, quando non se ne abbia la fortuna.

La veste si portava, sì, ma solo nella prima età, ed era di taglio semplicissimo, e di roba di pochissimo valore, detta barracana o peloncino.

Però verso i dodici o i tredici anni, appena cominciava ad arrotondirsi un po' il petto, subito se la toglievano per voltarsi il busto, e mettersi il costume.

E con che gioia!...

Uscire la prima volta in sottaniello era una vera festa per una figliola, badandosi più ai nuovi palpiti del cuore, che a sciocchezze di vanità e di fantasia, perchè voltarsi il busto significava mettersi sulla via di abbuscà (trovare) nu zito!

Anzi la veste ed il cappello venne fatto segno ad espressioni di mordace ironia, appiccicando all'una il titolo di si-loca, e all'altro quello di fasciedda (fiscella), buona a mettervi dentro il cacio e la ricotta.

Ed ecco tra i ricordi di quel tempo un aneddoto ad esilarare il
lettore.

Un certo D. Girolamo, scrivano di avvocato, sposò una giovane contadina.

Questa si mise la veste.

Che diamine, s' avia piglia' nu alantomo! .. Non le fosse venuta mai siffatta voglia, perchè subito a burla e a dispetto le cacciarono la canzone:

Angiolina vole li vant' (guanti)
D. Girolmo nu' po' tant',
Li vole di seta fina,
Color malva papagnina! (papaverina)

Nè basta ... Il giorno della prima uscita dopo lo sponsalizio, pavoneggiandosi alla meglio, andarono alla messa (messa cantata ve' !) nella Chiesa Cattedrale di S. Gerardo, per farsi ammirare dalla gente.

Quello spirito bizzarro di Emilio Maffei, allora giovine prete, si tolse il gusto di salire in quell'ora sull'organo a suonare la messa.

Mentre D. Girolamo ed Angiolina erano lì a fare mostra di sè, ecco che il Maffei, tirando tutti i registri della tastiera, si mette a strimpellare l'aria della cannone.

A questa sorpresa di burletta, la gente incomincia a ridere ed a guardare più gli sposi, sicchè i poverini, fatti rossi per la vergogna, se ne dovettero uscire dalla chiesa !

Unificatasi l'Italia a governo libero e nazionale, ne venne il rimescolamento e la fusione delle diverse genti, ed in Potenza, come Capoluogo della Provincia, si cambiò l'ambiente per novità e per pensieri, e quindi si trasformò ogni usanza paesana.

In quel grande entusiasmo di rivoluzione anche le donne furono prese dal bagliore di civiltà e di progresso.

Bello il costume, ma la moda della veste sconvolse ogni mente, e divenne per moltiplici cause una vera follia.

E doveva essere così.

Difatti quando le nostre giovinette videro tante belle maestrine aggirarsi saltellanti e graziose, ne rimasero incantate ai modi, al portamento e alla favella, in guisa che non seppero più tenersi all'antico.

Crebbe l'incentivo, allorchè si cominciò a vedere questa e quella, (alcune sorte proprio dal nulla) mettersi la veste e il cappello, gettando tra i cenci vecchi il costume.

Allora si disse : veste per lei veste per me . . . voglio anch'io togliermi questo gusto ....

L'esempio è contagioso!

E poi scuole, larghezza di promesse e di speranze, affluenza di gente, copia di marenghi, facilità di lucro e d'impieghi, capricci di matrimonii, fortune inaspettate, nuovo sistema di vita cittadina, allettamenti di lusso e di commercio, un via vai di commessi e viaggiatori, spensieratezza del domani e mille altre attrattive.

A tanto bene di Dio, come si dice, che si credeva che non dovesse mai finire, ogni fanciulla, ogni giovinetta, per quanto modesta fosse stata, perdette i lumi per la veste, pensando che per i tempi propizii la sorte sua fosse più sicura.

Sarà stato uno sbaglio di grave danno, ma il mondo è fatto così, e quando si presenta il destro, ognuno vuole godere un po' meglio la vita, specialmente dopo lunghe privazioni e ristrettezze.

Nella rivoluzione francese, a Versailles, non si andò a sedere un popolano sulla sedia del re, tanto per togliersi il gusto di poggiare per breve istante le natiche sul seggio dorato, senza considerarne i pericoli e le punture?

Completarono poi l'opera le Banche col loro torchio di fabbricare biglietti trasparenti e colorati e con la facile ricchezza delle cambiali, il fischio ammaliatore della vaporiera, e la crescente facilità dell'emigrare; laonde tutto l'antico sistema andò a sfacelo e a rovina.
E l'emigrazione crebbe, perchè vi concorse anche la vanità delle contadine per mutare abito e fortuna.

Si va e si viene dalle Americhe, come se si gesse (gisse) a la vigna, direbbe la nostra contadina.

N'anzenca (un poco) di pavura , quann' ti mett' int' a lu vapore di mare, e po' nient chiù (più) !

Per questo im preveduto malanno sociale la nostra popolazione è scemata assai.

Mancare parecchie migliaia di persone, le più valide e laboriose, sicchè le terre, quasi tutte, sono rimaste incolte.

Eppure una volta il potentino non pensava, nè gli diceva il cuore di abbandonare il proprio paese, ancorchè avesse dovuto guadagnare tuttt' l'oro de lu monn'!

Oggi non si vedono più sull'ora del tramonto, come un tempo, le vie della campagna affollate di gente, che tornava da fuora stracca o affaceridata, beffarda o allegra, maldicente o divota, secondo il lavoro, l'abbondanza o la scarsezza del ricolto.

Io le ricordo così affollate le vie del Monte, di S. Rocco e sopratutto quella di Santa Maria, che sembrava come una fascia bruna, tanta era la gente che dalle terre, lontane tre o quattro miglia, veniva per rincasare la sera.

Nel tempo di semina, e quando si zappavano le vigne, vedevansi i bracciali tornarsene a gruppi, a gruppi, senza spezza mai lu file, con la zappa sulla spalla, e la bértela attorno al muso, gettandone le sacche dietro la schiena, quasi fosse stata uno sciallo, per difendersi dalla brezza vespertina.

Chi a piede e chi a cavallo all'asinelio, con la mano all'anca e le gambe penzoloni, da toccare quasi la terra.

Tra quei gruppi spesso vi era qualche bracciale addutturare (addottorato) che la faceva da savio nei discorsi di arte e di coltura.

Di tanto in tanto vedovasi qualche vecchierello, che camminava incurvato, a stento ed affannoso, portando la sua zappa e la sua bértela, ed appoggiandosi ad una canna per bastone.

Lauramm' Dio (lodiamo Dio), si dicevano per saluto, senza allentare il passo, o fermarsi per la via.

Nel sentire la squilla da lontano, e nel passare innanzi la Croce del Monastero, si levavano il cappello e borbottavano una preghiera..

Le donne, passando di là, senza fermarsi piegavano il ginocchio, e stendendo la mano verso la Croce, la baciucchiavano, accompagnando una esclamazione di fede con lungo sospiro.

E si passava facilmente, specialmente quando non si faceva buono ricolto, dalla divozione alla mordacità, dalla fede ad espressioni di amarezza e di sconforto.

E quindi ora: 'ngraziamm' Dio (ringraziamo Dio) — dascia fa' Dio (lascia fare Dio)... ed ora : eh, ca "pur' Edd' si n'è scurda di noi! ovvero: Dominaddio n' ha post' sova la faccia di la terra; e po' ha ditt': viririvella voi (Domineddio ci ha posti sopra la faccia della terra, e poi ha detto : vedetevela voi ! )....

A questi accoramenti si accoppiavano sdegno e bestemmie contro municipio e governo per l'intirsurie (interusurie, balzelli), scatti minacciosi contro spogliatori e gaudenti, disperazione e lagrime per non potere pagare nemmeno la gabbedda (gabella), o fìlto delle terre al padrone!

Tra gli uomini vedevansi poi le donne con fasci di scropp' o di cannucce in testa per cuocere la minestra, con fasci di erba per venderla, con sacchi di spivilare (spigolato); e parecchie col navichizz, (cuna), dentro cui il bambino che dormiva, o alzava le mani verso il cielo a scherzare con la prima stella della sera.

Non mancavano gruppi di vagninciedd' e di vagnardedde (giovanotti e giovinette), che in vece d'intristirsi l'animo, si divertivano lungo la via a discorrere di barzellette, a mettere in burla qualche vecchia, a fare un po' l'amore, frizzandosi allegramente, e dandosi pizzili (pizzichi) e spintoni per provare la resistenza dei muscoli e la morbidezza delle forme.

Oggi tornando i contadini dalle Americhe, sembrano operai di opifizii o di ferrovia, e talora nei modi e nel vestito si danno anche aria, di borghesi.

Hanno ragione, perchè ben possono dire: Col nostro lavoro abbiamo girato il mondo! Ed oggi il lavoro è titolo di vera aristocrazia sociale, perchè non teme barriere di stati , nè s'impensierisce di rivoluzioni e di mutamenti di governo!

Però alcuni fanno ridere, nel vederli gironzare goffi e con certi stivaloni rumorosi che paiono tagliari cu l'accetta.

Più divertevole è sentirli frammischiare nel discorso frasi e parole inglesi a modo loro; quindi: bos, strit, brucchilin, nuova iorc e simili storpiature con accento amerìcano-putenzese.

Di ripigliare la zappa e li scarpone nemmeno per sogno passa loro per la mente, e se lo fanno, è per breve tempo, perchè subito riprendono la via delle Americhe!

E le donne ? . . . Oh, bisogna vederle, quando ritornano con la veste, come dimenano la groppa per Via Pretoria, e come raccontano liete le maraviglie di quei luoghi a parenti ed a vicine.

Ah! suora mia, ,nnanf mort' dà, e nu vive qui ! (Ah ! sorella mia, piuttosto morti là, che vivi qui,) le senti dire, accompagnando ogni parola con caldi sospiri.

Però i giovani potentini non dimenticando il proverbio « donne e buoi dei paesi tuoi » mandano di là a prendere i ritratti delle spose, quando non le conoscono bene di persona, e combinasi il matri monio per procura, perchè le giovani non partono, se prima non sieno sposate innanzi al Sindaco.

Sono accorte!

Quanto danno l'emigrazione arrechi alle nostre contrade, è vano ripeterlo.

Non deve però meravigliare se uomini e donne, appena venuti, hanno la fregola di ritornarvi, attratti dall'ambiente della vita americana di New-Jorh' o di altra città, ove, se lavorano come cani, hanno poi l'ora di vera libertà, non soffrono torture di tasse e di miseria, e si vedono la moneta d'oro nella tasca.

E poi, vanno a braccetto per le vie ricche e popolose senza soggezione alcuna; entrano nelle birrerie e nei ritrovi, serviti come signori, mentre da noi vengono disprezzati e negletti, quali schiavi o servi della gleba.

Vi pare che dopo avere mangiato colà pane bianco e la bistecca, vogliano tornare qui, riprendendo la vita antica, alla minestra di cavoli, di cicci (ceci, legumi) e di patate sfritte, alla sottapera o vinello di rifiuto, ed alle topaie puzzolenti ed affumicate ? . .

La vista e la vita di grandi città e di altri popoli hanno allargata la mente dei nostri contadini.

Più che le dottrine della cattedra e le oratorie quisquiglie dei comizii, è l'emigrazione che propaga e diffonde la quistione sociale, traendo vita e forza dal contatto e dal rimescolamento del vecchio col nuovo mondo.

Nè uomini di stato, leggi di parlamento e l'autorevole verbo delle Encicliche valgono a fermare la società moderna nel suo corso fatale, perchè essa non pivi cammina come l'Ebreo errante, ma attraversa monti ed oceani, portata dalla potenza del telegrafo e del vapore.

Quale sarà mai la soluzione di questo grave problema mondiale?..

Solo Iddio la sa, affidandola al tempo, che dà la calma ai turbini ed alle tempeste !..,.


© Luigi Albano
© Luigi Albano 2017
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